RACCOLTA IN UN LIBRO L’OPERA POETICA DI ORESTE LETTERI

di Andrea Giampietro

Lo scorso 9 dicembre si è tenuta a Pratola Peligna la presentazione della raccolta poetica L’utema boche di Oreste Letteri (1925-2016), pubblicata postuma grazie all’interesse della figlia Maria. Il volume presenta una nutrita scelta di testi in dialetto pratolano (in vita l’autore non aveva mai dato i suoi versi alle stampe, preferendo affidarli a periodici locali o alla semplice diffusione tramite fotocopia) che vanno dal 1993 al 2000. Alle poesie sono state affiancate le riproduzioni di dipinti e disegni realizzati dallo stesso Letteri, a dimostrazione della sua naturale inclinazione per l’espressione artistica.

L’evento è stato organizzato dalla Pro Loco di Pratola con la partecipazione del gruppo “Quattro chiacchiere in dialetto”. Introdotta da Filomena Di Rocco, moderatrice della serata, la Professoressa Brunilde Di Cioccio ha illustrato l’importanza culturale e antropologica del dialetto come perpetuazione delle civiltà passate. La Professoressa Maria Letteri ha rievocato la vicenda umana di suo padre (negli anni Cinquanta era stato costretto a lasciare l’Abruzzo alla volta degli Stati Uniti, dove fu impiegato in un’acciaieria, salvo poi farvi ritorno, lavorando come amministrativo presso l’Istituto d’Arte di Sulmona) ma anche le qualità tecniche del suo stile poetico («Oltre ad aver scoperto di avere una vena spontanea», scrive lei stessa a introduzione del volume, «egli studia e si documenta, va alla ricerca dei vocaboli e delle parole che poi sceglie e sapientemente combina in versi, tutte quartine in rima alternata e baciata ed a volte nella forma metrica classica del sonetto: due quartine e due terzine»). Ad Eugenio Di Cesare è spettato il compito di spiegare il titolo del volume, illustrando cosa fosse “la boche”, un antico gioco simile a quello delle bocce. La lettura delle poesie di Letteri è stata affidata a Mario D’Alessandro, Vincenzo De Stephanis e a due ragazzi, Alessio Di Simone e Aldo Gentile. Ma è stato possibile ascoltare dei versi anche dalla viva voce del poeta, grazie a un filmato realizzato a suo tempo da Lidio Di Simone e rielaborato per l’occasione da Giovanni Pizzoferrato.

L’opera di Oreste Letteri s’incanala perfettamente nel solco già tracciato da importanti nomi della poesia dialettale regionale, come il guardiese Modesto Della Porta, il vastese Luigi Anelli, l’ortonese Luigi Dommarco e il lancianese Cesare Fagiani. Parliamo di una poesia schiettamente “popolare” che la critica ha voluto forzatamente ricacciare nel “bozzettismo” ma che invece, rifacendosi alla parlata municipale, a sentenze, motti ed espressioni còlti dalla bocca del popolo, riesce a sublimare il sentimento collettivo restituendolo ora sotto forma di satira ora in veste di elegia. Letteri realizza soprattutto dei quadretti narrativi in cui si prefigge di rendere lo spirito di una comunità, le sue invenzioni, i suoi lazzi, le sue intemperanze, come quando ironizza sul costume paesano di affibbiare i soprannomi (Nu fatte oregginale) o quando rappresenta la furia degli sportivi pratolani contro un arbitro (Ughétte, l’arbetre pratulane) o ancora quando racconta gli affanni di uno scolaro impegnato in una sottrazione (Uardine i la sottrazzione). Altra importante componente della sua poetica è la sollecitazione delle memorie infantili, la nostalgia per gli anni della spensieratezza: dalla riscoperta di un antico giocattolo dimenticato in cantina (L’utema boche, che dà il titolo al libro) alla rievocazione degli svaghi che ci si poteva concedere coi bottoni (La storie de le lemèlle), dalla contemplazione del fiume Sagittario (Lu Saggittarie), che da bambini rappresentava un’occasione di libertà e di aggregazione, al ricordo delle visite rituali che, alla ricerca di una manciata di grano lessato, si facevano alla fine dell’anno (L’uteme Sante Saleviostre). La sua vena lirica investe componimenti di forte impatto emotivo, a cominciare da A lu Morrone («Tu stè vecioin’ a llu paèse moije, / come ss’ t’ l’ulisce strègne ’ncore, / come na mamme nch’ lu fiije soije, / ch’ s’ lu métte ’nzoin’ i lu rencore») in cui, inevitabilmente, accenna a un altro importante tema non soltanto della sua produzione (forte della sua esperienza personale) ma anche di quella di molti altri poeti regionali: l’emigrazione («Tu nn’ l’ sè quante m’ scì mancate / quand’ ij nn’ ’nt’ haije viste p’ tant’ ènne; / Morrone moije, sole l’emigrante / l’ po’ sapaije, ij’ ètre nn’ l’ sènne»).

Onore dunque a questa pubblicazione che ci restituisce l’opera di un valido autore della nostra terra (un letterato come Ottaviano Giannangeli, in qualità di presidente della giuria del Premio “Pratola” di poesia dialettale abruzzese, gli conferì una segnalazione di merito sia nel 1997 che nel 1999). Altrettanto lodevole è la donazione delle copie del libro, da parte delle figlie del poeta, alla Pro Loco di Pratola Peligna presso cui possono essere acquistate. L’invito è quello di rivolgersi all’opera di Letteri per riscoprire un mondo irrimediabilmente perduto ma che proprio grazie al recupero della sua lingua (in questo caso il dialetto pratolano) può tornare ad essere materia viva, testimonianza palpitante di trascorsi che caratterizzano un sentire comune, una civiltà passata che avrebbe ancora molto da insegnare.

A LU MORRONE

 

di Oreste Letteri

 

 

Tu stè vecioin’ a llu paèse moije,

come ss’ t’ l’ulisce strègne ’ncore,

come na mamme nch’ lu fiije soije,

ch’ s’ lu métte ’nzoin’ i lu rencore.

 

I nù t’ sémme tutt’ affezziunate,

a mmoije m’ scì care ch’ ’nt’ roice;

ch’ quadre d’ pittore renumate!

Pratel’ i tèuue ch’ fè da curnòice.

 

Quande lu sole cal’ a llu Sirènte,

tu t’ ’nfièmm’ i revionte tutte d’ore:

ch’ meraviije! a ch’ lu ’umènte

’mpiotte m’ sènte d’ tremà lu core.

 

Scì biolle quande vé la primavére;

chiù bioll’ ancore quande vé l’ ’state;

d’autunne tu scì nu belvedére

i d’ ’mmiorre fè remané ’ncantate.

 

Scì biolle sempr’ a tutte l’ staggione,

cuscì scì tèuue p’ lu pratulane;

tu forse nn’ l’ sè, care Morrone,

come t’ pènze ch’ t’ sta luntane.

 

Tu nn’ l’ sè quante m’ scì mancate

quand’ ij nn’ ’nt’ haije viste p’ tant’ ènne;

Morrone moije, sole l’emigrante

l’ po’ sapaije, ij’ ètre nn’ l’ sènne.

 

Mó ch’ haije remenèut’ i stionch’ a ècche,

t’ uoije uardà sempr’ a tutte l’ore,

fin’ a quande la lèuce a ’st’uocchie strècche

a mmoije m’ vé men’ i s’ rammore.