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UNA POESIA DELLA MEMORIA CHE RISCOPRE SENTIMENTI, PARLA ED ARRIVA AL CUORE

di Giovanni D’Alessandro

Quando parla la poesia dialettale di Ennio Bellucci bisogna richiamare all’ordine il cuore. Lo senti come sciogliersi. Nella lingua peligna, e in particolare pratolana, si sgranano infatti e riprendono vita meraviglie fonetiche che credevamo perdute, o consegnate a un tempo senza ritorno – di 60 anni fa esattamente per me – quando da bambino, avvezzo alla lingua della natìa Romagna, venivo d’estate portato dai nonni abruzzesi; nonni corfiniesi e sulmonesi, i quali per la verità non si esprimevano con la parlata restituitaci da Ennio, ma in un italiano o senza inflessioni o con intimidite inflessioni peligne, come in un’affettuosa concessione alla correntezza, alla gnomicità, o forse ad altro.

 

E allora perché mi si scioglie una parte del cuore? Non era la lingua parlata a casa, quella dei primi affetti familiari, ma era la lingua parlata dai bambini miei compagni di giochi, ascoltata per le strade, per le piazze e nei campi. La ritrovo nella recente composizione di Ennio: “Mantemane, com’ a tutte ietr’enne (stamattina, come tutti gli altri anni)/ emme meneute alla piazze/ pe’ verajje la feste (per vedere la festa)/ de la Maronne”. C’è sapienza traslitterativa in questi suoni. Le parole, leggendole senza voce, in prima battuta non si capirebbero neanche. Diventano invece chiarissime se recitate, cioè se lette ad alta voce, in quanto restituite alle loro originarie fonesi e cadenze.Si sgranano così le prime perle. Ecco la misteriosa prevalenza della vocale “e” quale si coglie in molte parole. “Tutti gli altri anni” diventa “tutte ietre enne”. Ecco la apofonia qualitativa (che trasforma lo stesso nome di Pràtola in… Pràtela, secondo la sorte comune, dopo una dentale, alle sillabe centrali delle parole sdrucciole). Ecco il discendere delle labiali “v”, “b” , f” verso la forma dolce in “emme”: “emme meneute”, “siamo venuti”. Ecco, soprattutto, in copiosa abbondanza, il tratto distintivo della parlata pratolana, il dittongo, nelle sue quanto mai varie articolazioni: “crocchi” diventa “cruocchie, ”venuti” diventa “meneute”, “ragione” “raggiaune”, “persone” “persaune”, mentre “vecchi” di dittonghi ne genera addirittura due, facendosi “viocchie”. “Henne raggiaune chi du viocchie/ che stivene a ricere” significa “Hanno ragione quei due vecchi/ che stavano a dire” diventa. Ecco qui il rotacismo, la trasformazione delle dentali e sibilanti in “erre”, con “dìcere” che diventa “rìcere”, come in tutte le parlate filocampane del sudovest, in antitesi a quelle umbroreatine (aquilane in particolare) dell’ovest della regione, che “acciaccano” le dentali verso la “c” dolce.

 

Dunque l’Abruzzo potrebbe essere definito terra di assorbimento di molte parlate dell’Italia centromeridionale, sarà vero? Sì e no. Non vale per la conca peligna, che è troppo autonoma. Certo, un’omologazione più forte (col foggiano) è presente in altre parti d’Abruzzo, ad esempio nella costa chietina meridionale, con tratti particolari (vocali chiuse) nel lancianese, nel guardiese e nel vastese, indipendenti l’uno dall’altro. Il Teramano, dal canto suo, ha la dominanza della “o” quale fonema distintivo, che inizia da Pescara stessa per estendersi verso Nord, ad abbracciare tutta la provincia, con tratti a parte nell’atriano e nel giuliese.

 

Ci fermiamo qui con questi “voli” pindarici dialettali – resi, non trovandoci in un trattato, con esempi non sistematici e con una terminologia non tecnica – per riprendere la domanda di prima: perché, in mezzo a tante assimilazioni e gregarietà, la conca peligna è un po’ un’ “insula felix” capace di rigenerare tutte le contaminazioni con un’originalità rara altrove? Ennio Bellucci sembra un appassionato cultore di questa tesi per il dialetto della sua Pràtela e ce ne dà uno straordinario esempio in questo 2025 con la composizione pubblicata oggi, concepita in vista del 2 novembre (che, nella conca di Sulmona, non sarà mai un post-Halloween, bensì un’articolazione estensiva di Capetièmpe, il “Capo del tempo” secondo il ciclo agrario peligno, antropologicamente studiato da Vittorio Monaco).S’intitola “Lu campesante”. “Quande piove,/ quande refa’ le fredde/ è nuviombre …/ i tutte venne/ a campesante./L’arie è chiù pesente/ i pe la vojje” (per la strada)/ poche se vaire (poca si vede)/la ggente./Però, come pe’ maggiojje” (eppure, come per magìa)/ parecchie persaune/ venne a trua/ i muorte./ So’ ‘na mucchie,/i so’ tutte forte:/ne’ piegnene …/i a cruocchie s’accumpegne…”(e a crocchi si accompagnano)/ “Ecche lu campesante: tutte lumine,/ tutte mezze de fiore,/tutte lampadine…Po’ tutte se ne revenne fore (poi tutti se ne rivengono fuori)”./ Dope l’Ave Marie,/ lu Paternostre,l’Eterne ripose,/l’Angele custode,/quacche i lacrime,/ i lu signe della crauce./De chele c’henne viste/ se n’henne scurdate:/ “Ue’!..Sci viste lu compare,/sci cuoile, caile,che l’uetre (sì, quello, quella quell’altro)/sci viste che giacchette,/che cappuotte,che pellicce,/i che cullane”…!//Ma …/Coccherunuetre ci sta’ a pensa’ (qualchedun altro ci sta a pensare)./I prime o dope,/tutte alloche/ avemmera rencasa’

 

’’ Ecco cosa parla al mio cuore quando leggo la poesia vernacolare di Ennio Bellucci. Sento risalire dal fondo della memoria, dov’era sopita, tutta una musica antica e la riconosco. Rivedo questo tesoro culturale, patrimonio di un’umanità anche analfabeta, che era l’unica a conoscere la lingua dell’anima. Rivedo gli sguardi selvaggi degli adulti, uomini e donne, impegnati nella battaglia della vita senza domandarsene il senso perché non si erano mai potuti permettere di farlo. Rivedo nei loro occhi – gioiosi o tristi, vincenti o perdenti, indomiti o rassegnati – tutto un mondo che reclamava di farsi riascoltare.E dove è – in conclusione – la perla finale de “Lu campesante”, che avrebbe fatto invidia a Vittorio Clemente il supremo cantore, prediletto da Pasolini, delle atmosfere gnomico- sentenziali generate dalla cultura popolare? Sta in quell’ultima parola di Ennio Bellucci, “rencasa’“, rincasare, che non è tanto e solo il cristiano ritorno alla Casa del Padre, quanto un ritorno al non-tempo, al nulla dove bisogna “rincasare”. Gli umani possono concedersi il loro tempo andando a trovare quelli che di tempo non ne hanno più: tutti belli vestiti e ingioiellati, chiacchierando e facendo commenti sui loro compagni di cammino, riunendosi in crocchi che vanno infittendosi lungo la via, per poi fatalmente diradarsi quando ognuno è giunto davanti alla propria tomba. Per loro infatti “coccherunuetre ci sta’ a pensa’ “, qualchedun altro ci sta a pensare. E prima o poi, finito il tempo, dobbiamo “rincasare”.Giovanni D’Alessandro, ottobre 2025

3 commenti riguardo “UNA POESIA DELLA MEMORIA CHE RISCOPRE SENTIMENTI, PARLA ED ARRIVA AL CUORE

  • …quando si parla di sentimenti,di commozione ,di affetti,di ricordi e di cuore
    bisogna solo fare appello alla propria sensibilita’ …..bellissima poesia ancora Bravo….Ennio. Puntuale, competente,coinvolgente e tecnico l’intervento dello scrittore D’Alessandro ….ho letto buona parte dei suoi libri…e qui conferma tutte le sue qualità.

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  • Enrico Di Giuseppantonio

    Certo! Ecco un esempio di commento elegante, sentito e adatto alla pubblicazione sotto l’articolo di ReteAbruzzo — potresti copiarlo e incollarlo nel modulo “Lascia un commento”:

    Commento:
    Leggere queste parole è come riaprire una finestra sulla memoria collettiva, dove il dialetto non è solo linguaggio ma anima viva, voce dei sentimenti più autentici. La poesia di Ennio Bellucci riesce a toccare corde profonde, restituendo dignità e calore a un modo di parlare che è anche un modo di sentire.
    Bellissimo anche l’intervento di Giovanni D’Alessandro, che con sensibilità e competenza accompagna il lettore in un viaggio tra suoni, ricordi e radici. Un articolo che commuove e fa riflettere.

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  • Enrico Di Giuseppantonio

    Leggere queste parole è come riaprire una finestra sulla memoria collettiva, dove il dialetto non è solo linguaggio ma anima viva, voce dei sentimenti più autentici. La poesia di Ennio Bellucci riesce a toccare corde profonde, restituendo dignità e calore a un modo di parlare che è anche un modo di sentire.
    Bellissimo anche l’intervento di Giovanni D’Alessandro, che con sensibilità e competenza accompagna il lettore in un viaggio tra suoni, ricordi e radici. Un articolo che commuove e fa riflettere.

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