Cultura

UN PEZZO DI STORIA ANTICA LEGATO AI BISOGNI PRIMARI E AI CEREALI DI MONTAGNA. NEL QUADRO DESCRITTO DAL PROFESSOR GIAMMARINI, SI EVOCA IL TEMPO ANDATO. QUANDO PER MANGIARE BISOGNAVA LAVORARE LA TERRA

di  Nando Giammarini

CABBIA DI MONTEREALE –  I cereali di un tempo che fu, finiti insieme ai nostri avi ed il riciclo dei materiali in ultima fase di consumo. Le tradizioni, anche alimentari, di un paese di montagna, quindi parliamo di prodotti altamente biologici, finiscono quando non le esercitano più le persone che li producevano e ne facevano uso. Alcuni cereali a Cabbia non si coltivano più da mezzo secolo ed oggi grazie ad un gruppo di giovani, animati da profondo amore per il territorio, sono tornati in auge. Parlo del farro, del grano dei poveri, utilizzato per l’alimentazione umana, i neori, la secina e l’orzo per quella animale. Sebbene la secina- la cui pianta è poco più alta di quella del grano, il chicco più lungo e un po’ più stretto – è coltivata a quota 1400 mt in tempi di carestia veniva usata anche per fare il pane che però era molto scuro e duro. A quei tempi non esistevano le moderne mietitrebbie per cui le farinacee venivano raccolte in manocchi. La secina sparsa nelle aie pavimentate in pietra e le spighe fatte calpestare da coppie di asini o mucche che si facevano girare su se stesse fino a quando il chicco usciva dal proprio guscio. A seguire con una forcina di legno si toglieva la paglia dai chicchi ed a questo punto essa era pronta per la scamatura, cioe’ la pulitura del chicco dalla cama, o pula. Questa operazione aveva necessità di vento per cui si aspettavano le giornate più ventilate che facilitavano il lavoro di pulitura. Una volta pulita veniva messa, attraverso la coppa ( recipiente di legno della capacità di 20 Kg circa ) in dei sacchi di Juta – caricata su quei poveri e pazienti quadrupedi, da sempre amici dell’uomo nell’antica civiltà contadina – e portate nelle cantine delle proprie abitazioni. Con lo stesso procedimento venivano lavorati i neori che erano una speciale biada per gli animali nel lungo inverno. Diversa la tecnica per il granoturco le cui pannocchie venivano sgranocchiate a mano. Una parte veniva riservata all’alimentazione umana quindi avviata al mulino per essere macinata ed una parte riservata agli animali. Con la paglia della secina le donne del paese realizzavano, con una particolare tecnica tutta manuale, le corolle . Esse altro non erano se non dei cerchi che si mettevano sulla testa per andare a prendere l’acqua alla fonte, visto che nelle case ancora non c’era. Esse rano anche una fonte di sostentamento per le famiglie in quanto le donne di Cabbia le portavano nei paesi limitrofi e le scambiavano con derrate alimentari. Il famoso baratto. Oggi è rimasta a Cabbia, ormai in età avanzata, una sola donna, “ zia Ardolina”, che ancora riesce a trasmettere a qualche giovane volenterosa l’antica arte . Altri prodotti dell’agricoltura del tempo erano il farro, il grano e l’orzo. Il primo è stato fortemente rivalutato ed utilizzato in cucina in tanti modi in più ci si fa anche il pane che però è di colore scuro e particolari dolci. Esso è ampiamente venduto nei supermercati in confezioni sotto vuoto . Quest’ultimi prodotti venivano lavorati con delle trebbie molto rudimentali azionate da antichi trattori con una cinghia di trasmissione. La paglia veniva imballata con una pressa azionata a mano per mezzo di una leva e veniva legata, a differenza di oggi con dei fili di ferro. Noi ragazzini di allora attratti dalla novità assoluta facevamo festa quando arrivava la trebbia ed eravamo lì, tenuti a debita distanza dai trebbiatori, ad ammirare il grandioso spettacolo. Un’ultima curiosità, il ferro utilizzato per legare le balle lo mettevamo da parte ed al primo tepore della primavera ci facevamo gli “scarrozzini” . Essi altro non erano se non tre ruote due collegate tra loro con un tondino e la terza anch’essa collegata alle altre due tramite un ferro più lungo che fungeva da volante.

 

 

 

 

 

 

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