L'Aquila Capoluogo

STORIA DI ORNELLA: QUELLO CHE LE DONNE RIESCONO A FAR FIORIRE ANCHE NEL DESERTO DELLA SOFFERENZA

L’AQUILA – Mi chiamo Ornella, sono una quarantatreenne, sposata con un figlio, lavoro in uno studio legale e stamattina alla fermata del bus ho visto una ragazza piangere. Fa sempre effetto sorprendere qualcuno che soffre, anche se non conosciamo le origini del suo dolore, i pregressi della sua vita e i motivi scatenanti di quella reazione. L’istinto del conforto verso una persona in evidente difficoltà ci appartiene per genetica, come se dentro avessimo un interruttore sempre pronto a riaccendere quella luce d’emergenza necessaria, laddove sospettiamo si sia imposto un buio passeggero. Così mi sono avvicinata alla ragazza e le ho sorriso. Lei ha continuato a piangere ignorando le mie buone intenzioni. A dire il vero mi sono anche sentita di troppo, perché ho pensato che volesse starsene per fatti suoi. Capita che anche le attenzioni più innocue possano risultare fastidiose quando non richieste. Per cui mi sono limitata a offrirle un fazzoletto. Quello invece lo ha gradito e all’improvviso mi ha sorriso. È stato buffo sorprendermi del suo gesto inatteso. L’ho interpretato come un chiaro segnale di complicità fra noi che ha interrotto un pianto cominciato chissà quando e per cosa.
Subito dopo mi ha ringraziata. Ho colto l’occasione per chiederle se avesse bisogno del mio aiuto e senza che me lo aspettassi fra un fremito e l’altro mi ha confidato il perché delle sue lacrime. “Scusa, ma mia madre mi ha appena chiamata per dirmi che papà è andato via di casa dopo una litigata…”.
Non poteva saperlo, ma la sua confessione mi ha riportata indietro di alcuni decenni, almeno tre.
Ero una ragazzina anche io, frequentavo le scuole medie e scoprii da una frase detta da mia madre in mezzo al trambusto di una giornata terribile, che papà se n’era andato via senza avvisare nessuno. E non l’aveva fatto da solo, ma insieme a un’altra donna. Io e mio fratello ignari di quella storia – almeno sino a quel momento – avevamo cominciato a cercarlo ovunque. Inizialmente, ci eravamo presentati all’ufficio delle Poste del nostro paese dove lui lavorava, poi ci eravamo spostati nei pochi bar del quartiere, con la speranza di sorprenderlo a prendere un caffè, e persino a casa di alcuni parenti, ma niente, nessuno sapeva dove fosse finito. L’indomani, sollecitati ancora dalla mamma, eravamo tornati all’ufficio postale e lì ci avevano informati che lui aveva chiesto cinque giorni di permesso per motivi familiari.
Mia madre aveva deciso solo allora di esporci con la dovuta sincerità i motivi della sua fuga: “Vostro padre ha deciso di vivere finalmente felice con la sua amante. Da tempo sospettavo che quei due si frequentassero alle mie spalle. Maledetto! Lo odio con tutta me stessa.” A me era caduto il mondo addosso.
In quei giorni mi aveva sorpreso la disperata necessità di vedere comparire mio padre dietro la porta di casa. Non mi importava delle sue malefatte. O meglio, mi indignavo sì della sua relazione clandestina, ma era più forte il bisogno di lui, e perciò me lo sarei tenuto anche con i suoi mille difetti. E invece, quella porta non si aprì per mesi e mesi, nel modo in cui avrei voluto io.Si sarebbe deciso a tornare da noi quasi un anno dopo, e soltanto per riprendersi quanto non era riuscito a portarsi via durante la prima fuga. Io e mio fratello lo implorammo di restare, ma lui sembrava di marmo. Una statua che non esprimeva alcuna reazione, anzi, nell’immediato ci aveva pure imposto con voce ferma di non insistere, che quella non era più casa sua, e che per vederci ci saremmo ritrovarti da qualche altra parte. La nostra esistenza si stravolse inevitabilmente, con mia madre che si consumava nella rabbia e nei ricordi da cancellare, e noi costantemente in bilico fra i sensi di colpa e l’amore.
La ragazza, nel frattempo, ha ripreso a piangere, portandomi a rivivere le sue emozioni e il suo sconquasso interiore. Davvero strano, se non bizzarro, che sia capitata a me una situazione del genere. Perciò ho cercato di dirle qualcosa per tirarla su. Infine, le ho parlato della mia esperienza. Lei è rimasta ad ascoltami attenta. A seguire l’ho vista corrugare la fronte, poi rilassare i muscoli del viso, e i suoi occhi hanno smesso di piangere, intenta a scoprire come fossi riuscita a superare il mio dolore.
Abbiamo sempre bisogno di sentirci compresi nelle nostre fragilità e sapere che altri prima di noi hanno attraversato gli stessi patimenti ci conforta, non tanto per egoismo, quanto perché ci si sente accomunati da un istinto di sopravvivenza insopprimibile.
La ragazza si chiama Olivia e più tardi tornerà da sua madre, dopo le lezioni a scuola. Non so nemmeno se riuscirà ad ascoltere gli insegnanti in classe. La cosa più importante – e gliel’ho consigliato da sorella maggiore – è che lei e sua madre non si facciano fregare dalla rabbia. È la prima reazione, ma con il tempo si impara che è anche la più sbagliata. Contano gli abbracci, il perdono (non sempre facile, ma necessario per vivere bene) e l’amore, anche per sé stessi. Il bus è arrivato.
Non è quello sul quale salirò io per andare al lavoro. Lei sì. Ci salutiamo come se ci conoscessimo da sempre e so che Olivia oggi ha imparato qualcosa di nuovo.
Mi auguro di ritrovarla fra qualche giorno seduta a questa fermata. Magari con un’espressione più sorridente. Che sia insomma quel giorno positivo che merita, tale da portarla a dirmi che avevo ragione nel consigliarle di…
Perché davvero, l’odio non insegna niente.

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