
DALL’ALBERO DI NOCE AI VAGITI. LA EMOZIONANTE STORIA SECOLARE DELLA CULLA DI FAMIGLIA DEI DE ANGELIS
La culla è lì, a portata di sguardo, di fronte alla porta d’ingresso: quando si rientra in casa gli occhi la sfiorano appena e subito vanno oltre, verso la scala che porta al primo piano; è discreta, silenziosa, sopporta paziente le piante che crescono rigogliose al suo interno, è bagnata dall’acqua abbondante che a volte scola dal fondo dopo aver dato nutrimento alla terra cui le piante sono radicate.
Tace ogni volta che vede passare qualcuno che entra nella casa; tace sempre…quasi sempre: non oggi.
La osservo, la carezzo con gli occhi, seguo con lo sguardo ogni singola tavola, ogni piccolo incastro, ogni voluta, ogni sua morbida forma. E lei inizia a parlare con voce tenue, sussurrata, come il lento canto di ninna nanna di una mamma che guarda con occhi incantati il suo bambino che dorme; ed il canto di una mamma diviene presto un coro melodioso di due, quattro, dieci mamme che si sono avvicendate dinanzi a quella culla per vegliare sulle loro piccole creature.
Una volta era albero rigoglioso, foglie larghe, fusto dritto con qualche nodo a memoria di rami troppo bassi che sono stati tagliati da mano umana o che, secchi perché non più utili alla pianta, sono andati ad arricchire l’umus che giaceva ai suoi piedi a coprire radici e arbusti.
Una volta era un rigoglioso albero di noce, di quelli che davano ombra e ristoro nelle torride giornate d’estate, e donava a settembre gherigli nutrienti che entravano a far parte di una dieta fatta di lavoro e sudore. Aveva messo radici nei pressi di Vigliano; lì era nato, cresciuto e divenuto adulto. Lì era caduto sotto i colpi di accetta che ne avevano cambiato il destino. Gli alberi nella cultura contadina non sono cose, fanno parte della famiglia; hanno vita più lunga di un uomo e diventano il sottile filo conduttore che lega le generazioni; sono memoria che si tramanda di padre in figlio. Spesso l’albero è posto a ricordo di una nascita, come gli splendidi esemplari che svettano ormai nel giardino di casa: un pino greco, un pino pendulo, un pino nero, un abete argentato, un cedro del libano, a memoria della nascita dei miei figli; tre querce fanciulle, un acero canadese piantati sul terreno seguendo un rito che ha visto protagonisti i miei nipotini quando a stento si reggevano sulle gambe.
Ricordo pioppi piantati da mio padre sulla riva di un torrente stagionale che ancora oggi porta acqua piovana e neve disciolta da monte Calvo al torrente Rajo e da qui all’Aterno. “Quando sarai grande ed io non ci sarò più verrai sotto l’ombra di questi alberi divenuti adulti e ti ricorderai di me” mi disse. E fu profetico: per me quel luogo è diventato sacro e dopo più di sessant’anni, passando di là, il pensiero corre veloce verso il cielo.
Ricordo un grande albero di ciliegio che sembrava toccare le stelle e ricordo nonno Eliseo, ormai ottantenne, arrampicato su di esso che raccoglieva i dolci frutti che mai la pianta dimenticava di dispensare: mi arrabbiai nel vederlo in quella posizione pericolosa; ero alla soglia dell’età adulta e mio nonno, con fare bonario mi disse: “quanno te spusi non ci sajio chiù: ju tagliemo e ci facemo fa’ la mobbilia pe’ ti”. Mi sembrò una bestemmia pensare il grande albero sacrificato per farne mobili: perché uccidere quella maestosa, meravigliosa creatura?
Mi sbagliavo: guardo la culla e capisco; l’albero non muore se tagliato, il faggio diventa calore all’interno di un camino e le fiamme tremule fanno da colonna sonora alle storie che i vecchi raccontano davanti al fuoco lasciando nei bimbi che ascoltano, ricordi indelebili; il ciliegio, il noce, il castagno diventano un tutt’uno con la casa quando sono trasformati in mobili, la quercia diventa solida parte di un carro, della struttura portante di un armadio, oppure calda brace sulla quale arrostire cibo o far bollire latte per trasformarlo in formaggio. L’albero resta in famiglia e continua a tramandare la memoria di tempi passati o si traforma in speranza per il futuro: una camera da letto per una famiglia che nasce, una culla per una nuova vita da amare e accudire.
I miei pensieri fanno un viaggio all’indietro nel tempo: ho conosciuto la culla mentre giaceva, quasi dimenticata, all’interno di una grande cantina, utilizzata come contenitore di cose che non servivano più; quasi dimenticata, ma ancora oggetto di un grande rispetto: “viene da casa di mamma” dicevano mio padre ed i miei zii quando entravo con loro, mano nella mano, in cantina; e raccontavano pure che li dentro avevano dormito fin quando il capo ed i piedi non arrivarono a sfiorare le due testiere.
Rivedo una scena tra il comico ed il raccapricciante di mio padre bambino che, giocando, aveva raccolto piccoli animali che dentro la culla avevano preso il posto di zia Nunziata, ultima nata della famiglia: guarda mamma, guarda come sono belli – gridava mio padre mostrando sul palmo delle mani i piccoli esseri. L’urlo di nonna Cesira mi risuona ancora nelle orecchie, dopo oltre cent’anni: buttali via, schifoso, sono topi!
In quella culla ha dormito il mio primo figlio Marco, ora quasi cinquantenne, dopo il fine lavoro di restauro di un bravo artigiano che riconobbe la sua età dal taglio della sega che aveva trasformato il tronco in tavole. Fine settecento: otto generazioni di bimbi. Mio padre ed i miei zii, mia nonna Cesira, mia bisnonna Annunziata, e poi ancora altre tre, quattro generazioni di mamme i cui nomi si sono ormai dissolti tra la bruma del tempo che, inesorabile, ha cancellato ogni loro ricordo.
Ma il vecchio albero di noce trasformato in culla è ancora lì, davanti alla porta di ingresso di casa, muta testimonianza di vite vissute, ricolmo di fiori e di teneri sentimenti rivolti alle piccole creature che al suo interno hanno trascorso i primi mesi della loro vita. Il vecchio albero, invece che essersi dissolto nella terra, continua vivere raccontando storie a chi ha orecchie e cuore per ascoltare e comprendere. E quella vecchia fioriera che fa bella mostra all’ingresso della mia casa non è una culla qualsiasi: è la culla di mia nonna, sarà forse la culla dei figli dei miei nipoti.