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L’UCRAINA NON BASTA: LA RUSSIA STA AMMASSANDO TRUPPE AL CONFINE CON LA FINLANDIA

di Federico Rampini

La notizia che la Russia sta aumentando le sue truppe al confine con la Finlandia conferma che per Vladimir Putin l’Ucraina è solo «una parte» del problema. La sua intenzione di lungo periodo è ricostituire la sfera d’influenza dell’Unione sovietica. All’apice della potenza dell’Urss la Finlandia era un paese neutrale, uno Stato-cuscinetto che Mosca poteva considerare come innocuo. Solo di recente, per effetto della guerra in Ucraina, la Finlandia è uscita dalla sua neutralità ed è entrata nella Nato: una sconfitta strategica per Putin, che evidentemente non si rassegna. Lui può inserire l’ingresso della Finlandia (e della Svezia) nella Nato nella sua narrazione sul presunto «accerchiamento» della Russia. È una storia familiare, troppo familiare. La Russia da sempre ha oscillato fra la vulnerabilità reale da una parte, la paranoia che ha ingigantito quella vulnerabilità, e infine le aggressioni “giustificate” con quella paranoia o complesso di persecuzioni.

Le invasioni hanno segnato la storia della Russia forse più che in altri paesi. E non è un caso se uno dei massimi capolavori della letteratura russa, e mondiale, s’intitola «Guerra e pace». Se avete letto Tolstoj, vi ricordate che lì dentro di guerra ce n’è tanta. La Grande Armée di Napoleone contro l’esercito dello zar Alessandro I e di altre potenze alleate (austriaci e prussiani). Un’epopea tragica, dove le gesta degli uomini forse non furono decisive. Alla fine, la ritirata di Russia segnò soprattutto la vittoria del Generale Inverno, il più temibile dei condottieri che difendono Mosca e San Pietroburgo dagli invasori stranieri.

Oltre che dal sacrificio eroico di milioni di soldati russi, pure la Wehrmacht nazista fu sconfitta dall’indomabile Generale Inverno. Gli italiani pagarono un tributo pesantissimo per l’alleanza Mussolini-Hitler: i nostri soldati, mandati allo sbaraglio nell’operazione Barbarossa, morirono a migliaia nella terribile ritirata fra le nevi (solo tra gli alpini il bilancio ufficiale parla di perdite pari al 60 per cento degli effettivi, su 41.000 soldati). Episodi analoghi, ancorché meno celebri, si ebbero con l’invasione svedese del 1707 e con l’intervento militare del 1918, quando le potenze alleate vincitrici della prima guerra mondiale organizzarono un corpo di spedizione per appoggiare le forze antibolsceviche: anche in questi due casi le condizioni meteo avverse ebbero un ruolo decisivo.

Il fallimento delle ultime invasioni racchiude un insegnamento ambiguo: da una parte, l’ultima parola spetta al Generale Inverno, che infligge un castigo mortale a chi si addentra in Russia e ci rimane nella stagione sbagliata; dall’altra, che senza il Generale Inverno è abbastanza facile percorrere le grandi pianure dell’Europa centrale e arrivare in un lampo da Parigi o da Berlino fino al cuore della Russia. Non ci sono delle vere barriere naturali – geografiche – come alte catene montuose o mari, deserti o fiumi difficili da traversare. La Russia è facile da invadere (occuparla è un altro discorso). Per questo Napoleone e Hitler ci cascarono. E per questo i russi – popolo e leader – si portano dentro un’insicurezza atavica. Che ognuno cerca di curare come può.

Il paradosso della superpotenza fragile è illustrato in un saggio dello storico americano Stephen Kotkin. S’intitola Russia’s Perpetual Geopolitics. Grande esperto di storia russa, autore di una biografia di Stalin, Kotkin descrive la sindrome dell’insicurezza alla quale generazioni di autocrati hanno dato sempre la stessa risposta: conquistare nuovi territori, espandersi ai danni dei paesi vicini, allontanare sempre di più da Mosca e San Pietroburgo il perimetro dei confini esterni.   APPROFONDISCI CON IL PODCAST

Per mezzo millennio, a cominciare dal regno di Ivan il Terribile nel XVI secolo, la Russia è riuscita a espandersi alla velocità media di 130 chilometri quadrati al giorno per centinaia di anni, fino a occupare un sesto di tutta la superficie emersa del pianeta. Nessun altro Stato occupa una porzione così larga della crosta terrestre. Tra i momenti di massima ascesa e allargamento territoriale, c’è la vittoria dello zar Pietro il Grande contro Carlo XII di Svezia, che nel primo Settecento ricaccia indietro gli scandinavi e insedia i russi nel mar Baltico; la vittoria di Alessandro I contro Napoleone, che fa dello zar uno dei protagonisti del Congresso di Vienna e quindi del nuovo equilibrio fra le potenze europee; la vittoria di Stalin contro Hitler, che permette all’Urss di allargarsi fino ai confini dell’Occidente e di annettersi, di fatto, la Mitteleuropa, inclusa mezza Germania.

Tra le fasi di ritirata (relativa): la sconfitta nella guerra di Crimea del 1856, che porta a una prima crisi del regime zarista e all’emancipazione dei servi della gleba; l’umiliante disfatta del 1905 nel conflitto contro il Giappone, la prima volta nell’era moderna che un impero «bianco» perde il confronto militare con un avversario asiatico; la sconfitta nella prima guerra mondiale, che determina il tracollo della dinastia Romanov e favorisce la rivoluzione del 1917; la ritirata dall’Afghanistan, che accelera la crisi dell’Unione Sovietica; infine la sconfitta nella guerra fredda, cui segue la dissoluzione dell’intero blocco comunista con le sue organizzazioni internazionali (la comunità economica, detta Comecon, e l’alleanza militare del Patto di Varsavia).

La contraddizione di fondo è questa: anche nei momenti di massima espansione territoriale, militare e imperiale, la Russia è sempre una superpotenza «debole». Nel 1900, per esempio, il suo reddito pro capite era un quinto di quello inglese, la speranza di vita media per i suoi abitanti era di 30 anni contro 52 in Gran Bretagna, e solo un terzo dei russi sapeva leggere e scrivere. La sindrome dell’accerchiamento, la paranoia, sono sempre stati l’altra faccia dei fallimenti nei tentativi di modernizzazione del paese. Più gli autocrati si rivelavano incapaci di fare della Russia un paese civile e avanzato, più le guerre esterne diventavano una valvola di sfogo, e un pretesto per rafforzare il proprio controllo repressivo. Per questo una delle ragioni plausibili per cui Putin non vuole la pace in Ucraina, è che l’aver organizzato la sua nazione come una «economia di guerra» gli ha consentito di consolidare ulteriormente il suo potere. Dopotutto, Putin diventa dichiaratamente anti-occidentale, esplicitamente antiamericano e anti-Nato, solo dopo che le «rivoluzioni arancioni» dell’inizio di questo millennio gli fanno temere una vittoria delle opposizioni.

 

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