
PAPA LEONE XIV L’AGOSTINIANO: L’ANALISI DELL’INTELLETTUALE AQUILANO GIUSEPPE LALLI
L’AQUILA – Il nome ‘Leone XIV’ scelto dal nuovo papa, il cardinale statunitense Robert Francis Prevost,
nato a Chicago il 14 settembre 1955 da genitori figli di immigrati, è stata scelta felicissima. Esso
evoca, in riferimento a chi lo ha portato nel passato, come meglio si chiarirà di seguito, la fede
nel soprannaturale e la speranza nell’umanità, la dimensione verticale e quella orizzontale, le
due braccia della croce, l’“et et”: la saggezza bimillenaria della Chiesa Cattolica, che tutto
sempre abbraccia e tutto riconduce in alto.
Non è stata certo una scelta secondaria, ma frutto di una visione chiara, che attiene non ad
ostentazione di potere ma alla consapevolezza del proprio ruolo e al carisma di cui la persona
del papa è portatrice, l’aver indossato la mozzetta rossa, che richiama la dignità di pastore
supremo della Chiesa e il legame con la tradizione, e la stola (la stessa indossata da Giovanni
Paolo II (1978–2005) e Benedetto XVI (2005 –2013), simbolo della pienezza del sacerdozio, in
una realtà ecclesiale, quella cattolica, dove la forma liturgica è sempre, in un modo o nell’altro,
sostanza teologica. Tutto riconduce, nella Catholica, ad una tradizione che travalica i secoli e i
singoli uomini, e partecipa dell’essenza stessa del Cristianesimo.
Sobrio, pacato, mite, lo stile del nuovo papa ricorda a tratti quello di Giovanni Paolo II, la cui
figura richiama anche nel fisico atletico e in una certa informale esuberanza, che in Leone XIV
appare più sorvegliata. Ha ripetuto la celebre frase di Wojtyla, “Non abbiate paura!” e ha
intonato il Regina Coeli, forse anche in omaggio a Sant’Agostino, di cui è figlio spirituale, che
diceva che chi canta in chiesa prega due volte. Lo stesso uso discreto ma convinto del latino
testimonia, al pari del grande papa polacco, una aderenza al proprio tempo che non rinuncia
alla tradizione.
La pace che ha annunciato con le sue prime parole pronunciate è la pace del Cristo risorto (“Vi
lascio la pace, vi do la mia pace” dice Gesù appena risorto mostrandosi ai suoi discepoli,
come si legge nel Vangelo di Giovanni), la pace nei cuori e nelle famiglie, a partire dal
linguaggio, come premessa indispensabile della pace nella società e tra le nazioni: una pace,
dunque, che è personale, interiore e spirituale, prima di essere sociale e politica.
Il nuovo pontefice ha fatto intendere che la capacità della Chiesa e di tutta la famiglia umana di
“costruire ponti”, espressione che ha ripetuto, passa attraverso questa riconciliazione profonda
che ciascuno deve fare in primo luogo con se stesso. Ha invitato alla fine la folla osannante a
recitare un’Ave Maria alla Madonna di Pompei, che ricorreva quello stesso giorno della sua
elezione, mostrando così, insieme alla sua radicata fede mariana, di saper coniugare, in uno
stesso discorso, altissimi richiami etici con espressioni di devozione popolare.
Ma è nell’omelia tenuta il giorno dopo nella messa celebrata alla Cappella Sistina di fronte ai
cardinali che ha esplicitato, in nuce, il suo vero programma spirituale. Nella cornice offerta dagli
stupendi affreschi michelangioleschi che raffigurano Cristo che giudica il Creato, Leone XIV è
parso voler tornare ai “fondamentali”, anzi al fondamento stesso della fede cristiana,
richiamando quel passo del Vangelo di Matteo in cui Gesù chiede a Pietro chi la gente dice che
egli sia, domanda che rivolge a tutti in ogni epoca e quindi anche alla nostra epoca. C’è
domanda più importante per chi come noi ha sentito parlare di questo Gesù di Nazareth fin dalla
prima infanzia?
La risposta di Pietro è la stessa che la Chiesa da duemila anni “custodisce, approfondisce e
trasmette”, la stessa che ripete il nuovo successore di Pietro: “Gesù è il Cristo, il Figlio del
Dio vivente, cioè l’unico salvatore e rivelatore del volto del Padre”, precisando subito dopo
che “Lui, Dio, per rendersi vicino e accessibile agli uomini si è rivelato a noi, negli occhi
fiduciosi di un bambino, nella mente vivace di un giovane, nei lineamenti maturi di un
uomo, fino ad apparire ai suoi dopo la risurrezione con il suo corpo glorioso. Ci ha
mostrato così un modello di umanità santa che tutti possiamo imitare, insieme alla
promessa di un destino eterno che invece supera ogni nostro limite e capacità.” Sono
parole luminose, lontane anni-luce dalla mentalità dominante.
Papa Leone inizia col fissare un punto di partenza, che vuole essere anche un obiettivo
programmatico: “La Chiesa sia sempre più città posta sul monte, arca di salvezza che
naviga attraverso i flutti della storia, faro che illumina le notti del mondo”, bellissime
immagini, che ci restituiscono tutto il fascino di una visione che non teme confronti; per poi
scolpire, con frasi limpide e profonde – rifacendosi alla sostanziale indifferenza, ostilità o
incomprensione con la quale accolse Gesù la società del suo tempo – un quadro di disarmante
realismo della confusione e miseria spirituale del nostro tempo.
“Anche oggi – ha detto con parole tutt’altro che rituali – non sono pochi i contesti in cui la
fede cristiana è ritenuta una cosa assurda, per persone deboli e poco intelligenti;
contesti in cui ad essa si preferiscono altre sicurezze, come la tecnologia, il denaro, il
successo, il potere, il piacere. Si tratta di ambienti in cui non è facile testimoniare e
annunciare il Vangelo e dove chi crede è deriso, osteggiato, disprezzato, o al massimo
sopportato e compatito.” Da qui l’urgenza per i cristiani della testimonianza coerente, giacché
dalla mancanza della fede, e quindi dal rifiuto dell’antropologia cristiana, derivano alla società
molte rilevanti conseguenze: dalla perdita di senso della vita alla crisi della famiglia “e tante
altre ferite di cui la nostra società soffre, e non poco”.
“Non mancano poi contesti – ha proseguito papa Leone con esemplare chiarezza – in cui
Gesù , pur apprezzato come uomo, è ridotto solamente a una specie di leader carismatico
o di superuomo, e ciò non solo tra i non credenti, ma anche tra molti battezzati, che
finiscono così col vivere, a questo livello, in un ateismo di fatto”: concetti, questi, che fanno
giustizia delle tante superficiali affermazioni di tutti quei maîtres à penser, anche cattolici, che in
televisione e sui cosiddetti “social” pontificano sulla figura di Gesù banalizzandola. Il nuovo
pontefice ha così implicitamente ricordato che il cristianesimo non è una bandiera da sventolare,
ma un annuncio da portare in primo luogo con la propria vita, in un quotidiano cammino di
conversione, nelle circostanze di tutti i giorni: l’annuncio di Cristo morto e risorto, la sola luce
che può fendere le tenebre del male.
Leone XIV ha infine esortato chiunque nella Chiesa eserciti un ministero di autorità a “sparire
perché rimanga Cristo, farsi piccolo perché Lui sia conosciuto e glorificato”, secondo il
fulgido esempio di Sant’Ignazio di Antiochia, martire vissuto tra il primo e il secondo secolo,
che, portato in catene a Roma, mentre attendeva di essere sbranato dalle belve, scriveva ai
cristiani dell’Urbe: “Allora sarò veramente discepolo di Gesù Cristo quando il mondo non
vedrà il mio corpo”, un linguaggio, questo, del tutto estraneo alla mentalità corrente, ormai
inusuale perfino in bocca ai preti.
La straordinaria omelia di papa Leone si può riassumere con una frase lapidaria di Blaise
Pascal (1623–1662), la stessa riportata dallo scrivente all’inizio di queste modeste riflessioni:
“Gesù Cristo rivela Dio all’uomo e l’uomo a se stesso”, sublime intuizione di sapore
agostiniano che il giovane Robert Francis Prevost, al tempo della sua formazione, non può non
aver letto e assimilato. A dispetto della sua apparente mitezza, quello di Prevost il giorno dopo
la sua elezione è già un ruggito da…Leone. Il nome che un papa appena eletto sceglie è un
programma, una memoria richiamata, un cammino ripreso.
Il pensiero corre immediatamente al primo papa che portò questo nome, quel Leone Magno
(440–461) che nel suo lungo pontificato, a fronte della profonda decadenza delle strutture
politiche dell’Impero, vegliò con energia sull’unità della Chiesa, affermando la supremazia del
vescovo di Roma su ogni altro e combattendo le eresie dei pelagiani e dei manichei. Papa
Prevost, tuttavia, per sua stessa esplicita ammissione, ha inteso rifarsi al suo immediato
predecessore nel nome assunto.
Egli mostra di voler guidare una Chiesa che sia una nuova e credibile coscienza critica del
mondo contemporaneo, come seppe fare verso la fine dell’Ottocento Leone XIII (1878/1903, al
secolo Vincenzo Gioacchino Pecci, nato nel 1810), diventato papa nella travagliata epoca
dell’Italia post risorgimentale e all’indomani della seconda rivoluzione industriale, che poneva
problemi nuovi e domandava risposte nuove, diverse certo da quelle che si agitavano nei vivaci
circoli politici del tempo, ma pur sempre risposte da dare.
Da qui la Rerum Novarum (“Sulle cose nuove”, 1891), l’enciclica che dette il via alla grande
stagione della dottrina sociale della Chiesa, che avrebbe impegnato nel secolo successivo
tante belle risorse intellettuali del laicato cattolico: non ricette economiche o programmi politici,
beninteso, ma principi morali e linee guida con cui orientare i cristiani e tutti gli uomini di buona
volontà in un universo sociale che era radicalmente mutato.
Ed ecco allora, accanto al riconoscimento della proprietà privata e della libertà d’impresa, la
chiara denuncia di un capitalismo selvaggio che mostrava di sacrificare la dignità del lavoratore
alla logica del profitto; ed ecco, accanto alla condanna senza riserve del socialismo e del
comunismo, il pieno riconoscimento del diritto dei lavoratori, a tutela dei propri diritti, di
associarsi in liberi sindacati, nei quali si indicava il concreto terreno per un’azione politico-
sociale tesa a migliorare le condizioni delle classi lavoratrici. Ed ecco infine, accanto alla ripulsa
di ogni lotta di classe, l’auspicio di una feconda collaborazione tra capitale e lavoro. Non
mancava inoltre, nell’importante documento, un’attenzione nuova nei confronti dello Stato,
chiamato a farsi carico dei problemi sociali e ad assumersi il compito di rimuovere per tempo le
cause dei conflitti tra operai e datori di lavoro.
Era un approccio diverso rispetto al passato anche recente: non più, come nel Sillabo di Pio IX
(1846–1878) del 1864, un’opposizione su tutta la linea ad una modernità vista come nemica
inconciliabile della Chiesa, ma un intelligente ed equilibrato discernimento di ciò che di buono
essa, inevitabilmente, recava con sé. Ma Leone XIII non fu solo il papa “sociale”, fu anche, anzi
soprattutto, la guida sicura del gregge assegnatogli, il custode premuroso di quella dottrina della
fede di cui la dottrina sociale è conseguenza ideale e concreta applicazione. Fu l’artefice di un
programma di restaurazione culturale in una stagione della storia in cui si facevano ancora
sentire le conseguenze della Rivoluzione del 1789.
A tale proposito, e per accennare soltanto alle principali encicliche che precedettero la Rerum
Novarum, nel 1879, nel secondo anno del suo pontificato, nell’ottica di un virtuoso rapporto tra
fede e ragione, con l’Aeterni Patris aveva raccomandato lo studio della filosofia e della teologia
scolastica, con particolare riferimento al pensiero di San Tommaso d’Aquino (1225–1274),
ritenuto strumento validissimo per difendere e illustrare le verità cristiane. Nel 1880, con la
Arcanum Divinae, aveva inteso ribadire la condanna del divorzio e la sacralità del matrimonio,
mentre nel 1884, con la Humanum Genus, aveva denunciato il relativismo filosofico e morale
propugnato dalla massoneria. È del 1885 la Immortale Dei, con la quale aveva voluto
sensibilizzare i cattolici sull’esigenza dell’evangelizzazione di una civiltà in via di
paganizzazione.
Non si può poi non ricordare che papa Pecci dispose, in conseguenza – pare – di una terribile
visione avuta, che i sacerdoti a fine messa recitassero un’invocazione a San Michele
Arcangelo (il principe delle schiere celesti che secondo quanto si legge nel Libro
dell’Apocalisse guidò la lotta contro gli angeli ribelli guidati da Lucifero) al fine di difendere la
Chiesa dalle insidie del demonio.
Attenzione ai temi sociali posti dall’attualità e rigore dottrinale fu ciò che caratterizzò il lungo e
non facile pontificato di Leone XIII, e questo stesso stile pastorale il nuovo vescovo di Roma ha
voluto preannunciare con la scelta del nome. Di fronte a quella che appare a tutti gli effetti una
nuova rivoluzione industriale, caratterizzata dallo sviluppo planetario della telematica e dalla
incipiente intelligenza artificiale (ciò che delinea una cornice analoga a quella in cui Leone XIII si
trovò ad operare), Leone XIV desidera che la Chiesa offra a tutti il suo patrimonio di dottrina
sociale di fronte alle nuove sfide che si pongono in ordine alla dignità umana e alla giustizia
sociale.
Una Chiesa non in ritirata, dunque, ma in ascolto attivo del mondo, un mondo dilaniato dalle
guerre e scosso da sfide epocali, quali l’emergenza ambientale, la frammentazione sociale, la
perdita di senso delle nuove generazioni. Una Chiesa chiamata tuttavia a non smarrire la
propria identità e a non tradire la propria vocazione, che non è quella di essere una semplice
agenzia morale, o un’associazione filantropica, come molti la vedono e come molti la
vorrebbero, ma quella di annunciare a tutti e a ciascuno la buona novella di una vita che non
finisce con la morte naturale, di un Dio che si è incarnato in Gesù Cristo in un supremo atto di
amore e che ci attende sull’altra sponda. Una chiesa “segno di contraddizione”, non come
espressione di un’astratta e disincarnata ritualità, ma per fedeltà alla sua missione, quella
ricevuta dal Cristo risorto.
Nato in una grande metropoli del Nord America e missionario per lunghi anni in Perù, il nuovo
pontefice conosce da vicino sia le periferie esistenziali dell’Occidente sazio e disperato sia le
bidonville degli squallidi sobborghi latino-americani. Papa Leone è infine, last but not least, un
figlio di Sant’Agostino (354–430), come si è dianzi accennato, quel vescovo di Ippona che è il
prototipo dell’intellettuale cristiano di ogni tempo, e che unisce mirabilmente profondità di
dottrina con sublimi slanci del cuore (celebre è la sua invocazione: “Ci hai fatti per Te, Signore,
e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te”; o l’affermazione, ancor più profonda:
“Dio è più intimo a me di me stesso”).
Agostino, in un epoca di transizione che ricorda per tanti aspetti quella attuale, è il giovane
inquieto alla ricerca della verità a cui la conversione e la fede in Gesù Cristo e nella sua Chiesa,
divenendo sostanza della sua carne, mutarono il suo modo di vivere, aprendo alla sua fervida
mente insperati orizzonti di pensiero. La “filosofia cristiana”, largamente preparata dai Padri
greci, giunse con lui alla piena maturazione. Guardando alla figura di colui che è stato chiamato
alla guida della Chiesa Cattolica, viene alla mente il vecchio adagio “In medio stat virtus”, dove
per ‘virtus’, non si deve intendere scelta moderata tra due estremi, bensì, in omaggio a ciò che
il termine indica in latino, cioè ‘forza’, la saggezza che viene da una forza tranquilla (la stessa
che l’immagine del leone, fortemente simbolica nella rivelazione ebraico-cristana, reca con sé),
quella che la sera dell’8 maggio si leggeva nel volto e nelle parole del nuovo successore di
Pietro.
Un uomo prudente, un uomo saggio, un uomo di Dio, una guida rassicurante: è così che appare
Leone XIV da questi primi passi da papa, “cristiano con voi, vescovo per voi”, secondo il
celebre motto del santo vescovo di Ippona che non ha mancato di ripetere appena eletto
affacciato al balcone, preoccupato forse di non alimentare un tifo da stadio, in questa nostra
civiltà dell’immagine che tende a spettacolarizzare perfino la santità. Abbiamo ancora nelle
orecchie le tante chiacchiere inutili e previsioni campate sul nulla che si sono sentite fino a pochi
istanti prima di conoscere il nome del nuovo vescovo di Roma.
Eppure ci sarebbe da chiedersi: la rapidità con la quale questo papa è stato eletto, il grande
consenso che la sua figura ha raccolto tra i cardinali elettori, non ha insegnato nulla a chi, per
pigrizia mentale o altro, non riesce a fare a meno di applicare categorie come “conservatore” e
“progressista”, o, peggio, “destra” e “sinistra”, proprie di una segnaletica orizzontale molto in uso
presso i giornalisti, appena appena adeguata per descrivere un contesto socio–politico, ma del
tutto inservibile per spiegare una realtà come la Chiesa Cattolica, che benché inserita nella
storia della vicenda umana, con i suoi limiti e le sue contraddizioni, si staglia in un orizzonte
metastorico?
Viene in soccorso ancora una volta Blaise Pascal, originale figura di matematico e filosofo
cristiano, che in uno dei suoi geniali pensieri, riferendosi alla Chiesa e al suo travagliato e pur
glorioso cammino attraverso i secoli (“arca di salvezza che naviga attraverso i flutti della
storia” l’ha definita il nuovo papa), così si esprime: “È bello essere in un vascello sbattuto
dai venti sapendo in anticipo che non si perirà”. Lo Spirito Santo, che il percorso di quel
vascello sorveglia da duemila anni, non finirà mai di stupirci. Un vento nuovo è tornato a
soffiare.