QUANDO I MIGRANTI ERAVAMO NOI: LA STORIA E’ MEMORIA E DEVE FAR RIFLETTERE

di Marco Verdecchia*
Vi propongo un piccolo frammento di un racconto molto più lungo. Grazie alla mia amica Rosanna Rizza che ha condiviso con me alcuni ricordi della sua famiglia. I familiari di Rosanna li incontriamo a bordo della Oceanic; le cuccette per i viaggiatori di terza classe, dove alloggia anche Francesco, si trovavano sotto la coperta di prua, quelle che vedete al centro sono le cabine di prima classe.
La RMS Oceanic era un transatlantico su cui, all’inizio del secolo scorso, viaggiarono decine di migliaia di emigranti che cercavano lavoro nel continente americano. Dopo numerose traversate, la nave venne requisita dalla marina britannica e utilizzata per il trasporto truppe durante la prima guerra mondiale.
[…]
In quell’alveare umano viaggiava anche un ragazzo pugliese, non più giovanissimo che si chiamava Francesco. Costui si distingueva e venne presto notato per due caratteristiche del tutto insolite in quell’ambiente di disperati. La prima era una ostentata eleganza nel vestire del tutto inusuale in quel particolare ambiente. Egli portava baffi lunghi e curatissimi e, ogni mattina, appena sceso dalla sua cuccetta, aveva cura di vestirsi con una raffinata giacca di ottimo taglio perfettamente abbinata al pantalone e al cui occhiello era sempre attaccato un elegante fregio di stoffa. Prima di indossare i calzoni, il ragazzo li piegava accuratamente sul letto e ci passava sopra con vigore il pollice e l’indice affinché la piega fosse il più possibile inappuntabile per evidenza e geometria. La elegante camicia era, almeno fino a che fu possibile, sempre ben pulita e stirata, e in gran parte coperta da un leggero e raffinato gilet chiuso da una lunga fila di bottoni che erano ogni giorno allacciati con un rituale che si sarebbe detto persino maniacale. L’ultimo atto di quel rituale prevedeva il nodo della cravatta che, anche questo, veniva quotidianamente rinnovato con cura estrema di fronte a uno dei pochi specchi disponibili nell’immensa camerata.
Il vestito di Francesco destava molta curiosità e quasi incredulità e, durante quelle settimane, divenne quasi una sorta di implicito calendario perché, inevitabilmente, il lindore della camicia e la piega dell’abito ebbero a degradarsi alquanto durante la traversata. Nella parte interna della giacca, Francesco portava una strana sacca affatto dissimile dal taschino interno di un normale vestito e i suoi compagni di viaggio scoprirono presto che si trattava di una ampia tasca cucita alla fodera in cui il giovane emigrante custodiva, con gelosia e premura, tutti gli attrezzi del suo mestiere: il ditale, alcuni aghi, due paia di forbici di differente misura, un gessetto di quelli usati per il “disegno” preliminare dei tagli sartoriali e un insieme di rocchetti di filo di vari colori. A chi si prese l’ardire di domandargli cosa mai contenesse quel sacchetto che si portava sempre dietro, Francesco rispondeva che lui era un sarto, un raffinato sarto che aveva vestito anche grandi signori e, quindi, gli pareva naturale anzi indispensabile portare sempre con sé quanto poteva servirgli per rammendare uno strappo, riattaccare un bottone o rifare una cucitura che si era allentata. In effetti, presto o tardi, in molti approfittarono della sua disinteressata disponibilità a “mettere qualche pezza”, quasi nel senso letterale dell’espressione, a dei capi di abbigliamento che si erano scuciti o consumati o troppo logorati durante le tante avventure che, come abbiamo visto nel seguire Vincenzo e i suo compagni, potevano esser capitate prima di imbarcarsi. Si seppe assai presto che il giovane sarto pugliese viaggiava insieme a un suo cugino il quale, però, aveva abbigliamento molto meno curato e del tutto simile a quello indossato dalle altre centinaia di ragazzi che alloggiavano in quel reparto per soli uomini.
Francesco si fece inoltre notare per un’altra insolita caratteristica: gli capitò, una volta o l’altra, di stringere la mano e presentarsi a quasi tutti i suoi compagni di viaggio che parlavano la sua lingua e a tutti rivolse la stessa domanda, ovvero se fosse la prima volta che andavano in America o se vi fossero già stati e, nel caso l’interlocutore affermasse di essere già emigrato da quelle parti, il giovane mostrava una foto in cui si vedeva il volto di una suora dall’atteggiamento assai austero chiedendo se, per caso, l’avessero già vista. Alla prevedibile incredula reazione del suo nuovo conoscente, Francesco spiegava che quella foto era di una sua cognata, che da religiosa si chiamava suor Giuditta; costei era partita per l’America come missionaria ma di lei non s’era saputo più nulla. Con un misto di velleitario ottimismo e di ingenua umanità, egli raccomandava a tutti che, se l’avessero incontrata in giro per il continente, avrebbero dovuto avvisarla che suo cognato Francesco era adesso anche lui in America e di contattarlo al più presto a Paterson, dove lui si stava recando. Fu così che tutto il ponte di terza classe della Oceanic seppe che quel sarto era partito da Cisternino, vicino Taranto, con il duplice scopo di veder valorizzato il suo lavoro di sarto raffinato con il quale in Puglia non riusciva più a sopravvivere, ma anche con la utopica speranza di ritrovare, nell’immenso continente, la sua amata cognata di cui più nulla aveva saputo da molti anni.
Francesco raccontò senza nessuna remora delle ragioni di quel suo viaggio: così come era stato radioso un recente passato in cui aveva vestito fior di signori, la sua attività di artigiano si era adesso drasticamente ridotta al punto che lui disperava di poter ancora vivere con gli attrezzi che si portava nella “strana” grande sacca cucita nella fodera della sua giacca. Per quelli che si appassionavano alla sua storia e gli chiedevano altri particolari, Francesco tirava fuori un’altra foto in cui era ritratto un bel gruppo di famiglia su cui, scorrendo con l’indice un po’ tremolante per l’emozione, egli indicava la sua sposa e le sue quattro figliole che lo aspettavano a casa. E quando incontrava qualcuno che mostrava un minimo di curiosità o di compiacenza e si soffermava a osservare quella abbondante prole stampata nei pochi centimetri di una foto, Francesco si inorgogliva particolarmente e, con voce ancor più rotta dall’emozione e usando un tono più basso, confidava che avrebbe voluto che tutte le sue figlie studiassero; lui si recava in America per questo, appena conquistati una buona posizione e un discreto alloggio avrebbe richiamato con sé la moglie e tutta quella meraviglia di discendenza.
*ricercatore presso UnivAq

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