L’ANALISI DI UN GIOVANE STUDIOSO: EREDITÀ DI FRANCESCO E SFIDE PER IL PROSSIMO PONTEFICE

di Francesco Di Giandomenico*
Il Papa è morto. Il Papa resta morto. E noi l’abbiamo irriso.
Questa frase, dal sapore nietzschiano, può suonare come una provocazione a pochi giorni dalla morte di Papa
Francesco, ma racchiude un senso che va oltre la sfera ludica.
Egli è stato davvero un segno di contraddizione nei tempi postmoderni, accolto da molti come un progressista dopo il
papato duro di Ratzinger, ma anche allontanato come un falso riformatore prima ancora di coglierne la portata
rivoluzionaria.
Papa Francesco è stato un papa simbiotico perché ha incarnato in pieno il significato di pontifex, cioè costruttore di
ponti. Spesso lo abbiamo ridotto a pontifex minimus, sminuendolo e attribuendogli la colpa d'essersi sminuito da solo.
Forse non abbiamo compreso l’aspetto kenotico del suo pontificato, svuotato delle formalità e impregnato di un modo
più familiare che regale di interagire con un mondo in costante mutamento.
Era uno di noi, Papa Francesco. Basterebbe leggere il titolo della sua prima esortazione apostolica, Evangelii Gaudium,
per coglierne la simbiosa visione: chiedeva ai cristiani di essere trasmettitori di gioia nella nuova evangelizzazione,
contrastando individualismi e coscienze isolate tipiche del mondo contemporaneo.
Fino al suo ultimo Urbi et Orbi, ha attinto all’istanza pacifista di Giovanni XXIII, il Papa del Concilio, secondo cui tutti
gli uomini e tutte le donne di buona volontà – non solo i cristiani – possono costruire la pace nella verità, nella giustizia,
nell’amore e nella libertà.
I suoi gesti genuini, nonché le sue proposte che invertono i paradigmi dominanti, si sono tradotti nell’enciclica Fratelli
tutti con una formula semplice ma radicale: fraternità aperta.
La pace infatti, secondo Francesco, è frutto dello sviluppo integrale di ogni persona e si fonda su quattro pilastri: il
tempo è superiore allo spazio, l’unità prevale sul conflitto, la realtà è più importante dell’idea e il tutto è superiore alla
parte. Questi sono i principi alla base di una convivenza che si possa definire umana e civile. E dopo di lui non
dobbiamo dimenticarlo.
Fondamentalmente questa è l’eredità che lascia il ‘morto’ Papa Francesco. Questa è l’eredità che resta per i cristiani di
tutti i continenti. Ed è anche quella che dovrà caricarsi sulle spalle il nuovo Papa, senza irriderla e senza farsi irridere –
in primis – da una Curia romana spesso troppo ancorata al culto della ‘romanità’ e alla dottrina ‘conservata in naftalina’.
A scanso di equivoci, voglio per un attimo entrare nel cosiddetto conclave social. A mio avviso, due sono i candidati più
papabili in questo momento storico: Pietro Parolin e Luis Antonio Tagle.
Parolin, classe 1955, creato cardinale da Francesco nel 2014, si profilerebbe come un nuovo Papa operaio nella vigna
del Signore, un diplomatico esperto che ha attraversato le sedi più disparate della Chiesa, comprese le periferie
esistenziali del mondo, come il martoriato Venezuela.
Il suo motto episcopale, “Quis nos separabit a caritate Christi?”, riflette una fede centrata sulla carità di Cristo in un
mondo diviso e assetato di dialogo.
Tagle, classe 1957, creato cardinale da Benedetto XVI nel 2012, potrebbe essere un nuovo Papa del sorriso, alla maniera
di Papa Luciani.
È un evangelizzatore nato, già sulle orme di Francesco durante la visita pastorale nelle Filippine del 2015. Il suo motto
“Dominus est” richiama lo stupore dei discepoli di Emmaus alla vista del Risorto, segno di una fede radicata nella
meraviglia e nella comunione.

Personalmente, da aquilano, mi sento legato a entrambi. Con Parolin ho avuto uno scambio epistolare prima della visita
ufficiale di Francesco all’Aquila durante la Perdonanza Celestiniana del 2022. Con Tagle, invece, ho rischiato
un’intervista telefonica quando era ancora Presidente di Caritas Internationalis.
Comunque, nella mia lettera del 24 giugno 2018 a Parolin, proponevo una visita pastorale di Francesco all’Aquila,
nonché la definizione della città come “Capitale della Pace” attraverso un incontro ecumenico e sulla scia del messaggio
di Papa Celestino V.
La risposta del Cardinale Parolin fu un ringraziamento sentito, rimandando l’iniziativa alla competenza
dell’Arcivescovo Petrocchi.
Rileggo commosso le parole del Papa nell’omelia della Perdonanza del 28 agosto 2022 e mi sembra una profezia
finalmente realizzata: “Fratelli e sorelle, che L’Aquila sia davvero capitale di perdono, capitale di pace e di
riconciliazione!”
Forte di questi ricordi, sostengo che il nuovo Papa – che sia o meno “romano” e che sia più o meno l’ultimo, secondo i
pronostici effimeri delle profezie dell’ultim’ora – debba proseguire il dialogo con le periferie del mondo, comprese
quelle esistenziali, e tessere la via della seta religiosa, come ha affermato recentemente il gesuita Antonio Spadaro.
Forse il nuovo Papa dovrebbe chiamarsi Giovanni – come il Papa della Pacem in Terris e del Concilio Vaticano II, o
come il santo che invita a prepara le vie del Signore e a raddrizzare i suoi sentieri – ma, da cattolico, so che bisogna
affidarsi alle vie imperscrutabili dello Spirito che soffia dove vuole. Di certo, il prossimo Pontefice non potrà esimersi
dal compito fondamentale: presiedere nella carità tutte le Chiese e, in forza di ciò, farsi pellegrino di speranza per il
mondo intero, nel segno del Giubileo, portando addosso l’odore delle pecore e la gioia di chi annuncia una vita nuova.
Francesco ha dato inizio a questi processi, costruendo una Chiesa in uscita, senza paura di sporcarsi le mani.
L’unica profezia certa, già realizzatasi con Papa Francesco, è forse quella a cui aspirava Pasolini nella poesia “A un
Papa” tratta dalla raccolta “La religione del mio tempo” (1961). Il poeta friulano lamentava il fatto che un Papa non si
sarebbe mai preoccupato del tipico “ragazzaccio plebeo” di nome Zucchetto, “uno della grande greggia romana e
umana”, travolto e ucciso da un tram qualunque.
Uno come Zucchetto non sarebbe stato indegno dell’amore di Papa Francesco, perché quest’ultimo ha saputo rinunciare
addirittura a vivere “in vista della bella cupola di San Pietro”, scegliendo di stare – citando Pasolini – quanto meno
idealmente nei “posti infami, dove madri e bambini vivono in una polvere antica, in un fango di altre epoche”.
Mi piacerebbe pensare che, laddove il poeta friulano chiedeva poeticamente al Papa un gesto o una parola per uno come
Zucchetto – giammai equiparabile al gesto di perdonare Marx, come auspicava probabilmente il Pasolini critico del
‘suo’ Papa – il prossimo successore di Pietro forse dovrà pensare anche a questo, visto che lo stesso Francesco ha
saputo perdonare in maniera eclatante persino Lutero.

*Studioso

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