POESIE “A CUORE SCALZO”, L’ULTIMA RACCOLTA POETICA DI EVANDRO RICCI
La produzione poetica di Evandro Ricci ha conosciuto negli ultimi due decenni una crescita esponenziale (una ventina di raccolte di versi dal 2002 ad oggi, quasi tutte in dialetto), parallelamente a quella in ambito storico-archeologico (ha dedicato importanti volumi alla civiltà della Valle Subequana, da I Peligni Superequani. La Sicìnnide e le origini di Secinaro, Sulmona, 1969, a Superaequum. Tradizioni e realtà, Torre dei Nolfi, 2019) e alle dissertazioni su temi teologici (ricordiamo il suo studio Gesù uomo politico. Miracoli e resurrezione nel linguaggio esoterico, Torre dei Nolfi, 2016). Se da un lato la “senettute” (Ricci è alla soglia dei 98 anni) è terreno fertile per approfondire ogni tipo di riflessione esistenziale, dall’altro non impedisce alla voce poetica di ritrovare energia e di dispiegarsi con la consueta – se non con una rinnovata – libertà.
Nell’ultimo libro, Lèmbe de core scàuze (Lampi di cuore scalzo), pubblicato nel dicembre scorso da Arsgrafica Vivarelli Edizioni (Pratola Peligna), Ricci elegge a topos letterario il “cuore scalzo” spiegandone il motivo nella Premessa: «Immaginiamo di camminare su un prato a piedi nudi, proveremmo molte sensazioni calpestando foglie verdi, foglie secche, sassolini, se il prato è umido o bagnato, se è caldo o freddo ecc. Parimenti un cuore scalzo, puro, non coperto da pregiudizi, può captare le sensazioni più varie di simpatia, antipatia, amore, odio, diligenza, indifferenza, amicizia, invidia ed altro» (p. 8). È un’immagine che ricorda la bohème rimbaudiana («tiravo, come fossero delle lire, gli elastici / delle scarpe ferite, col piede accanto al cuore») e che rende perfettamente la “verginità emotiva” necessaria al poeta per vivere e interpretare il mondo. Nei versi che aprono il libro, Ricci dichiara apertamente: «Quande me mètte a scrive / la pènna va da sòla, / cirte vòte m’accròje / de parlà n-settenàrie. / Scrive quèle che pènze / che’ ju còre mì scàuze / i pètale de fiure / tòcche sènza ji guènde» («Quando comincio a scrivere / la penna scrive da sola, / a volte mi accorgo / di parlare in settenari. / Scrivo ciò che penso / col cuore mio scalzo / e i petali di fiori / tocco senza guanti», p. 13). Già nel precedente libro, Remanè Partì (Torre dei Nolfi, 2023), troviamo un riferimento a questa attitudine del poeta: «Ju còre scàuze ròsceca la nòtte, / ciche, ma grusse cumma mare i cièle / s’àuza n-cima l’ònda de j’azzurre, / accarèzza la luna i stèlle d’ure: / ju cìele sarrì ciche a stacce dèndre» («Il cuore scalzo rosicchia la notte / piccolo, ma grande come mare e cielo / si solleva sull’onda dell’azzurro, / accarezza la luna e stelle d’oro: / il cielo sarebbe piccolo a starci dentro»).
Due peculiarità colpiscono il lettore: la prima riguarda la scelta dell’autore di scrivere nel dialetto di Secinaro (paese alle falde del Sirente) e non in quello originario (Ricci è nato a Roccacasale da genitori di Prata d’Ansidonia e da sempre vive a Sulmona; tuttavia è stato maestro elementare a Secinaro di cui era nativa sua moglie, Loreta Ricotta); la volontà di adottare un dialetto d’elezione richiama quella di un grande autore come Franco Loi che, pur se genovese di nascita, preferì esprimersi in milanese. Nella prefazione alla prima raccolta di Ricci, Ju Surente nustre (Sulmona, 1966), Ottaviano Giannangeli riteneva che Secinaro, paese “stoico” che aveva sopportato molte privazioni alle quali aveva reagito con la sua indomita operosità e la prontezza della sua ironia, meritasse finalmente un suo poeta: «Tale poeta è esploso, poi, per strana ironia, in Evandro Ricci, un maestro elementare non nativo, ma adottivo del paese, che tuttavia ne ha raccolto la realtà e, con perizia, il dialetto meglio di quanto potesse fare un indigeno, forse perché ha avuto come palestra di esperienza la scuola, e la geniale angolazione della sua sensibilità e del suo gusto».
È curiosa inoltre la scelta di affidarsi totalmente al settenario, alquanto inusuale – se non alternato all’endecasillabo – nella poesia tradizionale abruzzese (altrettanto avrebbe fatto il poeta pettoranese Vittorio Monaco), che tuttavia si adatta alla vena epigrammatica dell’autore il quale predilige componimenti brevi, asciutti (si arriva addirittura al distico), perfetti per l’asciuttezza del suo spirito ironico e “moralizzatore”. Ricci ha tradotto in dialetto molta poesia greca (come l’opera epigrammatica di Marziale) e ha maturato esperienza nella decifrazione delle epigrafi rinvenute sui cippi o sulle rovine della Valle Subequana; la sua poesia ha proprio questo: l’icasticità dell’epigramma e l’austerità dell’epigrafe.
Le sue “invettive” riguardano il potere spregiudicato della politica («Ju pulìteche abbàia / cumma nu lupe nire / i bève a jù becchire / la vava de putère»; «Il politico ulula / come un lupo nero / e beve dal bicchiere / la bava del potere», p. 16), la deriva bellicista delle nazioni («Tra ju ngìndie de case / i la mòrte de cìtele / la bìstia de la guèrra / sènza pietà fa stragge, / se cagna ju culòre / a pètale de fiure, / n-ce sta fàccia de Ddì. / Pe ju cìele ferite / vùlane le bòmbe»; «Tra l’incendio di case / e la morte dei bambini / la belva della guerra / senza pietà fa strage, / si cambia il colore / al petalo del fiore, / non c’è faccia di Dio. / Nel cielo ferito / volano le bombe», p. 37), l’imbarbarimento della civiltà occidentale («La ciuveltà cunzuma / ji pùpele ònda arriva, / destrùje cumma ninde / la razza che ce tròva / che cèrca de fermà / la fòrza de cunguista / de ju ddì de ji sòlde»; «La civiltà consuma / i popoli dove giunge, / distrugge e annienta / la stirpe esistente / che cerca di ostacolare / la forza del conquistatore / del dio denaro», p. 74), lo spaesamento dei giovani («Ji giuvenutte tinne / cunfine de velure / cumma pulèdre a pasce / n-cèrca de rappianà / na valanca sballata»; «I giovani hanno / confini di valori / come puledri al pascolo / in cerca di appianare / una valanga sballata», p. 19)
Ma i versi di Lèmbe de core scàuze hanno anche il gusto del monito popolare, degli antichi motti che l’autore ha raccolto dalla viva voce dei secinaresi (in volumi come Ditte pe reditte. Pruvìrbe nustrène, Lanciano, 2002): pensiamo a «Na barghètta de carta / nata a nu sìcchie d’acqua, / na speranza perduta / viaja a na pescòlla / de ndruvedate ngiàfele. / Pò cambà chi tè fuche / pò murì chi tè pane» («Una barchetta di carta / nuota in un secchio di acqua, / una speranza perduta / viaggia su una pozzanghera / di torbido fango. / Può vivere chi ha il fuoco / può morire chi ha il pane», p. 20) o a «J’òme cattive mètte / a la velàngia sule / le còteche de vòcca»; («L’uomo perverso posa / sulla bilancia soltanto / le cotiche della bocca», p. 75).
Non mancano alcune limpidezze elegiace in cui Ricci si abbandona al richiamo della natura o degli affetti: «Ju Surènde recòrda / cante d’andica gènte / quande che j’univèrse / ha spedite nu pizze / de ju cìele affatate / che’ nu lambe che cèca / i terrìbbele tune» («Il Sirente ricorda / il canto di antica gente / quando l’universo / ha spedito un pezzo / del cielo fatato / con un lampo accecante / e un terribile tuono», p. 68); «N’éche che se revèjja / mètte ju còre scàuze / a la vì de la vita / che’ la luce d’amore» («Un’eco che si risveglia / pone il cuore scalzo / sulla via della vita / con la luce dell’amore», p. 78). Così come insistono le riflessioni, venate tanto di amarezza quanto di serena contemplazione (per quanto Ricci non creda nella vita ultraterrena e non manchi di rimarcarlo), sull’esistenza che ormai si avvicina al suo traguardo: «La vecchiara è nu libbre / da sfujjà piane piane, / la cèrqua nen se pieca / a ju nganne de vinde. / Cambe serine i aspètte / paròle d’armunì / affucate de sòle» («La vecchiaia è un libro / da sfogliare lentamente, / la quercia non si piega / alla lusinga del vento. / Vivo sereno e aspetto / parole di armonia / annegate di sole», p. 22).
Ciò che colpisce nella lettura di questa raccolta è la straordinaria vivezza di un poeta che, giunto quasi alle dieci decadi, non smette di sperimentare il suo linguaggio e di farsi testimone non soltanto di un’epoca perduta, che pure nel suo caso non è mai stata idealizzata (contrariamente a certa poesia “folkloristica”), ma anche di una cocente attualità che lo vede come interprete lucido e per certi versi “impietoso” (è nell’indole stessa dei secinaresi a cui Giannangeli, nella succitata prefazione, riconosceva «la “risposta pronta”, secca, recisa: una reazione contro i colpi della iattanza, dello scherno umano e della malasorte»). È la reazione naturale di un “cuore scalzo” alle intemperie di un mondo in cui, chi ha vissuto “di poesia”, stenta davvero a riconoscersi…
Andrea Giampietro