IL TRATTURO, LA MASSERIA E IL MONDO DI BENEDETTA.

di Angelo De Angelis

Il cielo terso ha accompagnato l’ultimo giorno di ottobre che volge ormai al termine; alto sul profilo nero delle montagne brilla Vespero, che con il nome di Aurora accompagnerà anche i primi chiarori dell’alba di domani.
Mi perdo ad osservare appena sopra l’orizzonte una esile falce di luna calante, adagiata sulle ultime tenui pennellate di rosso che salutano il giorno che muore; rabbrividisco al freddo pungente che ha la meglio sul tepore del sole ormai tramontato.
Gli antichi pastori partiti come me il 29 settembre, nel giorno dedicato a San Michele Arcangelo, dopo 244 chilometri percorsi lungo il Tratturo Magno, si sono ormai avvicinati alla meta del loro cammino, mentre le ultime greggi stanno ora partendo dalla terra d’Abruzzo; ogni gregge è preceduto da un piccolo corteo di muli e carri trainati da pazienti e robusti somari, che trasportano le masserizie.
E’ un esodo di dimensioni bibliche quello che si ripete negli anni: fino a sei milioni di ovini condotti da tante migliaia di uomini, ciascuno con il suo ruolo e la sua specializzazione.
L’epopea americana della conquista del Far West impallidisce al confronto; e la nostra transumanza non sfigura neppure di fronte all’Esodo dall’Egitto di Mosè e del popolo d’Israele, nel 1513 A.C..
Corre l’anno 1944: gli effetti della guerra hanno devastato le abitudini quotidiane e la vita di grandi e piccoli; in città e nei piccoli centri montani intorno a L’Aquila diventa sempre più difficile avere cibo in quantità sufficiente: chi può si allontana dalle zone di guerra alla ricerca di una ritrovata tranquillità, lontano da soldati in armi di mille nazionalità, carri armati e mezzi militari di ogni tipo.
Il fronte, fermo da quasi un anno sulla linea Gustav che corre tra Ortona e Montecassino, è appena migrato verso il nord lasciando una scia di distruzione, sangue e dolore; si è così ripristinato il libero transito lungo la via d’erba che da millenni unisce l’Abruzzo alla Puglia.
E la transumanza riprende vigore…
Uno dei carri stracolmo di masserizie contiene una viaggiatrice d’eccezione: è Benedetta, bambina di 7 anni; è partita da Roio con la madre per seguire papà Antonio, pastore transumante, diretto verso la tenuta Cappelli, nei pressi di Foggia, dove il nonno Enrico svolge il suo lavoro di fattore. La strada è lunga e disagevole, il tempo incerto di ottobre non lesina freddo e piogge battenti; la bambina ha gli occhi brillanti colmi di lacrime: è annoiata, infreddolita, sfinita; la notte ci si è dovuti adattare ad alloggi precari, dove l’igiene lascia molto a desiderare, tanto che il capo della piccola sembra ormai un allevamento intensivo di pidocchi, che neppure i pettinini a denti fitti e la polvere disinfestane riescono a debellare.
Ma la meta è ormai vicina: si vede non lontana la doganella di Serracapriola. una lunga ed ampia salita giunge al valico posto sotto il paese, dove il tratturo si restringe ad imbuto consentendo la conta degli animali in transito. Un messo a cavallo informerà i doganieri di Santa Maria del Ponte, alcune miglia più avanti, della proprietà e della consistenza delle greggi in transito, sveltendo le operazioni di pagamento della FIDA. Ad un’ora c’è San Paolo Civitate; un altro giorno di cammino in direzione Foggia, e si giunge alla Masseria Cappelli.
I giorni sette ed otto di ottobre scorso ho ripreso il cammino lasciato qualche giorno prima ed ho percorso il tratturo da San Martino in Pensilis fino a Foggia. Ho trovato tanta accoglienza, al pari dei vecchi pastori che, ovunque transitassero, davano vita a piccoli e grandi mercati dove si barattavano carne, formaggi e lana con i prodotti della terra; dove si rinsaldavano antiche amicizie e ne nascevano di nuove, dove ci si divertiva al suono di organetti e di zampogne. Non mancavano tavole di accoglienza imbandite dove ci si rifocillava nel corpo e nello spirito con qualche fetta di pane condito con olio e vino in abbondanza.
Quella stessa antica accoglienza l’ho sperimentata a Rosciano, ad Ari, a Lanciano, a San Martino in Pensilis; qui una troupe del TG3 del Molise, allertata dalla amministrazione comunale, ha voluto immortalare e rendere pubblico il transito di una decina di strani viandanti che a piedi hanno rievocato l’importante realtà che ha unito per secoli le regioni Abruzzo, Molise e Puglia.
Accoglienza d’eccezione anche a Serracapriola, con Sindaco e rappresentanti della Proloco schierati dietro una inaspettata tavola imbandita con i prodotti locali: pane cotto al forno a legna, vino, olio, formaggi di ogni tipo di produzione locale e soprattutto la spettacolare Pampanella, un concentrato di colesterolo estratto dalle parti più grasse e saporite del maiale, cotte a fuoco lento in un forno con pomodoro e peperoni; e non è mancato l’accompagnamento di zampogna e ciaramella, come nella più autentica tradizione pastorale.
Spettacolare la sosta notturna alla Masseria Difensola, con cena a base di piatti poveri contadini, primo tra tutti il Panecotto, pane raffermo arricchito con verdure dell’orto che si sposano con erbe spontanee raccolte nella campagna circostante. Cicoria, tarassaco, finocchietto, grespino, borragine, rucola danzano magicamente in padella con bieta, zucchine, cime di rapa, pomodori freschi ed essiccati, alloro, cipolle e patate, insaporiti ed amalgamati da peperoncino piccante e pancetta fritta. Regina del piatto è qualche fetta di quel pane raffermo che troppo spesso dalle nostre tavole post moderne e sciupone, vengono trasferite nella spazzatura.
In ultimo l’accoglienza istituzionale del Comune di Foggia in piazza dell’Epitaffio, dove un monumento del 1651 indica il punto di arrivo dei principali tratturi. La manifestazione si è chiusa in bellezza al ristorane “Ciciri e’ttria”, che evoca un altro piatto storico della Puglia del quale menziona l’esistenza nientemeno che il poeta Orazio: è una pasta e ceci particolare, con pasta corta attorcigliata a mano di sola farina e acqua, in parte bollita, in parte fritta, donde deriva l’aggettivo tria, corruzione dell’arabo ittrya, fritto.
Unanime l’intento di tante amministrazioni locali, che vedono nel turismo lento attirato dalla ultra millenaria tradizione pastorale, un mezzo per generare nuova economia trainante, a beneficio delle popolazioni locali.
Percorrendo l’ultimo tratto del tratturo, alle porte di Foggia, ho di nuovo visitato la masseria Cappelli, trovandola ancora più desolata di quando l’ho scoperta cinque anni fa: un edificio fortificato, ormai svuotato di tutto e abbandonato, con porte e finestre murate per evitare ulteriori saccheggi. Non è servito a nulla, perché le ingiurie del tempo e dei vandali continuano la loro lenta opera di demolizione, snaturando l’edificio e facendo cadere nell’oblio le attività che in quei luoghi fervevano fino a sessant’anni fa.
Guardo quei ruderi con gli occhi di Benedetta, la bambina di sette anni che nel lontano 1944 si allontanò dai disagi della guerra per passare un anno diverso e particolare che ancora oggi, ormai vecchia, ama raccontare imbastendo storie fantastiche di vita vissuta.
Vedo girare pastori che iniziano la giornata all’alba e vagano per la campagna col loro gregge aiutati nel lavoro di sorveglianza da splendidi esemplari di cani pastore abruzzesi; li vedo rientrare a sera, mungere il gregge, portare il latte all’interno della masseria dove il casaro, con arte antica, lo trasformerà in squisito formaggio e in ricotta; il siero residuato dalla lavorazione sarà la base per il pasto di maiali e cani, che condividono gli avanzi della cucina.
Vedo contadini affannarsi intorno ad un circolo lastricato di pietra circondato da un basso muretto, dove quattro mucche appaiate girano in tondo pestando covoni di grano per separare la paglia dalla pula e dai preziosi grani “Senatore Cappelli”, selezionati proprio in quel podere e resi famosi in tutta Italia e nel mondo per le loro caratteristiche organolettiche e per l’alta resa rispetto alle sementi precedentemente in uso. Quei chicchi di grano, trasformati in pasta e in pane, danno un profumo intenso e aromatico che ricorda la mandorla; danno un gusto ricco, sono molto digeribili ed hanno un alto contenuto di fibre, di vitamine e sali minerali.
Vedo ogni giorno nonna Lucia, la moglie di Enrico il fattore, che prende qualche chilo di farina ottenuta da quel grano, la impasta con un buon numero di uova raccolte di buon’ora nel pollaio e riposte in una grande cesta di vimini; la vedo cucinare per l’esercito di pastori e contadini che lavorano nella masseria.
Vedo le donne che prima dell’alba ripetono l’antico rito della panificazione: impastano farina con acqua, sciolgono il lievito madre nell’impasto, aspettano che lunghi filoni ricrescano nell’umido tepore della madia, quindi li dispongono in buon ordine all’interno del forno, nel frattempo riscaldato con fascine di legna, residuo delle potature dell’anno prima.
Vedo a tarda sera nonno Enrico chino sullo scrittoio davanti ad un grande registro, annotare le ore svolte dai lavoratori avventizi e da quelli assunti per l’intera stagione o solo per qualche giornata: aggiorna i conteggi necessari per calcolare la paga che a fine settimana darà loro. Annota anche le spese sostenute per i materiali acquistati, per gli attrezzi, per il sale da dare agli animali, per il veterinario e financo per il prete, che periodicamente si reca alla masseria per curare le anime di chi in quel luogo vive e lavora.
Domani annoterà anche la spesa che farà al porto di Manfredonia; ancora a notte Enrico salirà sul calesse trainato da un agile e veloce cavallo in modo da intercettare le barche dei pescatori al rientro nel porto e sceglierà quanto di meglio il mare avrà regalato; ed ogni venerdì le donne addette alla cucina varieranno la dieta preparando un lauto pasto a base di pesce.
Agli occhi di Benedetta, che per spirito di adattamento aveva ormai fatto il callo alla miseria ed alle tribolazioni causate dalla guerra, comparve, in quel lontano 1944, un paradiso in terra fatto di libertà, di cibo abbondante, di bei panorami, di tanta gente operosa che ruotava intorno alla masseria, di nonni e genitori che le regalavano affetto; e paradiso in terra era per lei anche cavalcare Drago, un grosso, candido, premuroso cane pastore abruzzese, che mansueto la trasportava fin sotto una lontana quercia secolare dove si divertiva a giocare con lui. Il cane aveva scelto la babina come suo gregge da accudire, ed i grandi sapevano bene che quella bambina era al sicuro, protetta da un sorvegliante d’eccezione, attento ed affettuoso.
Vedendo oggi i ruderi della Masseria Cappelli immersi nella desolazione di una campagna vuota, mi sono rimbalzate in mente le parole scritte da Vitalina, figlia di Benedetta, che commentando il post sul mio cammino del tratturo di tre anni fà, ha condiviso con viva commozione le esperienze tante volte raccontate dalla mamma.
Un grazie grande a Vitalina.
Il mio giorno in masseria l’ho passato prima dell’arrivo a Foggia: è la masseria di Don Teodoro, pastore transumante che tiene in vita con caparbietà e tenacia un’attività ormai al tramonto. Lo conferma il figlio che orgogliosamente ci guida all’interno del vecchio complesso edilizio. E’ reduce da una riunione con il commercialista, che ha constatato la gestione in perdita dell’attività; l’oro biondo della pastorizia, la lana, che una volta veniva trasformata in panni pregiati che avevano fama di essere tra i migliori d’Europa, oggi deve essere smaltita, con costi crescenti, come rifiuto speciale. La struttura dal fascino senza tempo ha bisogno di importanti opere di adeguamento e ristrutturazione con insostenibili costi di ammortamento; manutenzione e gestione dei mezzi meccanici sono troppo alti per garantire il giusto profitto; il ricavato dalla vendita dei prodotti agricoli e pastorali da anni rincorre invano l’aumento dei costi generali di gestione dell’attività.
Non trovo più il gregge che cinque anni fa era appena tornato dall’alpeggio di Scanno; non trovo più i cavalli di razza, ambiti da tante persone che trovavano nell’equitazione motivo di vago e di sport. Trovo poche capre, alcuni maiali ed animali da cortile accuditi da una coppia di lavoratori migrati molti anni fa dall’Albania, che curano l’ordinaria manutenzione della masseria, coltivano il grande podere traendone sostentamento e accudiscono un orto rigoglioso.
E’ l’ultimo sprazzo di vitalità di un modello di mondo pastorale ed agreste che si è avviato in maniera irreversibile verso la strada di non ritorno.
Il mondo della mia infanzia, il piccolo mondo dei miei nonni, il mondo della piccola Benedetta, sta scomparendo anche in quella che è stata per millenni una ambita terra ricca e produttiva.

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