ALCUNE RIFLESSIONI SULLA SANITÀ (prima parte)
di Gianvincenzo D’Andrea – Perché un Servizio Sanitario pubblico possa definirsi di qualità deve poggiare su tre pilastri : una capillare attività di prevenzione delle malattie, una capacità di effettuare la diagnosi delle stesse in modo rapido e l’erogazione di cure appropriate al momento opportuno. Sulla prevenzione e sullo scarso interesse di molti cittadini nei confronti delle pratiche sanitarie che consentono di ridurre l’incidenza e la gravità delle malattie (campagne vaccinali e screening tumorali) ho scritto recentemente e sull’erogazione di cure appropriate dirò prossimamente. Oggi mi soffermerò, invece, sull’importanza della tempestività della diagnosi e sui fattori che possono comprometterla. Sui tempi inaccettabilmente lunghi per l’esecuzione di visite ed esami specialistici (necessari per formulate la diagnosi) che si registrano oggi ho parlato ripetutamente mettendo in evidenza il fatto che, perdurando la situazione attuale, ci si ritroverà ad affrontare un più elevato numero di casi di malattia, peraltro ad un livello di gravità maggiore.
Si sa che il ritardo nella diagnosi può cambiare sensibilmente il risultato delle cure incidendo significativamente sull’aspettativa di vita del paziente (sopratutto in caso di malattie tumorali), ma è esperienza comune che attualmente eseguire esami e visite mediche specialistiche in tempi accettabili, nelle strutture sanitarie pubbliche è praticamente impossibile. La causa dell’allungamento delle liste di attesa per fruire delle prestazioni fornite dal SSN è dovuta alla insufficienza del personale (causata dai tagli alla spesa sanitaria con il blocco del turnover), e alla carenza delle apparecchiature tecnologiche. I problemi accumulati nel corso degli anni dal nostro Servizio Sanitario Nazionale si erano evidenziati appieno nel corso della pandemia Covid (medicina territoriale pressoché inesistente, pochi medici ed infermieri, pochi posti letto di terapia intensiva ecc.) facendo dire, allora, ai rappresentanti di tutte le forze politiche che sarebbe stato necessario un immediato e cospicuo investimento finanziario per mettere la Sanità Pubblica del nostro Paese in condizione di dare risposte rapide ed efficienti ai bisogni di salute dei cittadini di fronte ad ogni evenienza.
Oggi, però, a ben vedere, quelle buone intenzioni, espresse in un momento particoladmente critico per la salute degli italiani, sono rimaste tali e poco viene fatto per mantenere fede agli impegni presi. Nel DEF (Documento di Economia e Finanza) recentemente approvato dal Governo e prevista nel 2025 un’assegnazione aggiuntiva alla Sanità di 900 milioni di euro che rispetto alla dotazione corrente di 134 miliardi di euro rappresenta un incremento dello 0,7 %. Ma se si tiene presente che il tasso di inflazione reale, in Italia, è di gran lunga superiore a questa cifra si comprende bene che in Italia la Sanità rimane ancora sottofinanziata e che per questa ragione è ben lontana dai primi posti nella graduatoria dei paesi UE per finanziamenti ricevuti rispetto al PIL (Prodotto Interno Lordo). Nelle condizioni attuali di scarsezza di personale e di finanziamenti ridotti è quasi un miracolo che il SSN riesca ancora a garantire prestazioni dignitose a tanti cittadini e s e ciò avviene lo si deve sopratutto all’abnegazione di medici ed infermieri che, chiamati “angeli salvatori” durante la pandemia Covid, continuano a lavorare nella Sanità Pubblica (ma fino a quando?) con stipendi che sono la metà o un terzo di altri paesi UE.
Tanto per aggiungere qualche dato esplicativo va tenuto presente che in Germania e Francia il rapporto della spesa sanitaria rispetto al PIL è il 10% mentre in Italia appena il 6,4 %. Non c’è dubbio, allora, che ci stiamo pericolosamente avvicinando al punto di collasso del SSN con il risultato che per tantissimi italiani in condizioni economiche svantaggiate o anziani (che non potranno accedere alle prestazioni a pagamento della sanità privata o alla stipula di polizze assicurative integrative) sarà sempre più difficile, se non impossibile, curarsi adeguatamente anche in caso di malattie di non elevata complessità e/ o gravità. Inoltre accade già ora che 4,5 milioni di italiani abbiano rinunciato alle cure per le lungaggini del SSN e per l’impossibilità di pagare le prestazioni fornite dalla sanità privata.
Lo scenario attuale (e sopratutto quello futuro) però sarebbe stato ben diverso se, quando era possibile, si fosse deciso di accedere al prestito dell’UE noto come MES sanità, attivato al tempo della pandemia Covid per consentire il rafforzamento dei servizi sanitari dei diversi paesi. L’Italia avrebbe potuto ottenere vantaggiosamente un prestio di 36 miliardi di euro al tasso dello 0,15% restituibile in 10 anni che avrebbe consentito la costruzione di ospedali e strutture sanitarie, l’assunzione di nuovo personale con aumento delle retribuzioni , il rinnovo delle apparecchiature obsolete ed altri interventi di miglioramento di tutto il settore. Ma, per ragioni che personalmente non sono riuscito a comprendere, questa clamorosa opportunità non è stata presa in considerazione adducendo la giustificazione che i necessari interventi nel campo della Sanità sarebbero stati realizzati con finanziamenti assegnati dal programma europeo Next Generation Europe (il cosiddetto PNRR). In quest’ultimo però i fondi previsti per la sanità ammontano a 15,63 miliardi di euro ai quali potrebbero aggiungersi altri fondi fino ad una somma complessiva pari a circa 20 miliardi che è circa la metà di quella all’epoca prevista nel MES sanità e quindi dovrebbe essere spiegata il vantaggio della scelta operata.
Inoltre tra le conseguenze derivanti dalla scarsità dei finanziamenti alla Sanità ce n’è una di cui non credo ci sia consapevolezza diffusa e che proverò ad illustrare. In un recente documento della Società Italiana di Ingegneria Clinica (SIIC) sono stati esposti i risultati di un indagine nazionale sull’anzianità delle apparecchiature di imaging (per Tomografia Computerizzata-TC e Risonanza Magnetica -RM) presenti nelle strutture sanitarie pubbliche e private. È emerso che nelle strutture sanitarie private li 50% delle apparecchiature in funzione sono vecchie più di 10 anni mentre in quelle pubbliche la percentuale è del 30 %. Questa differenza smentisce innanzitutto la convinzione assai diffusa che il settore privato della sanità sia molto più attento alla sostituzione delle apparecchiature obsolete, ma mette in evidenza un problema di non poco conto riguardo alla tempestività della diagnosi. Sempre secondo la SIIC le apparecchiature per imaging con un’anzianità maggiore di 10 anni hanno una minore capacità di individuare le lesioni patologiche di piccole dimensioni. In pratica un’esame TC o RM eseguito con una apparecchiatura con più di 10 anni può non evidenziare una microlesione tissutale nel 30% dei casi. Quanto ciò possa essere pericoloso per la salute dei cittadini e più oneroso per il SSN ( a causa del ritardo nella diagnosi e per il maggior costo delle cure se iniziate in una condizione di maggiore gravità della malattia) è facilmente comprensibile ed imporrebbe ai manager della sanità scelte immediate per garantire ai cittadini prestazioni corrette. ( Segue)