GIANNANGELI E LA FORTUNA LETTERARIA DI UMBERTO POSTIGLIONE

I motivi dell’opera poetica di Umberto Postiglione, così esigua (riuscì a scrivere soltanto otto poesie prima di spegnersi all’età di trent’anni) eppure così rilevante nella sua originalità di espressione e nella sua forza ispiratrice, si possano spiegare con le parole ch’egli indirizzò dall’America Latina alla sorella Norina (17-08-1918): «E sai cosa mi frulla pel capo? Di mettere tutte e due le mani nel sacco del nostro dialetto per tirarne fuori quei modi di dire, quei proverbi e quelle parole più caratteristiche del nostro popolo, e vedere infine se – sciacquati e rassettati un po’ – non possano fare la loro figura accanto alle favorite dell’aristocrazia delle lettere. […] Un’altra cosa: vorrei che raccogliessi quanti più stornelli puoi, fra quelli che nel bel tempo antico cantavano i nostri contadini accompagnandosi col calascione. Ancora: cerca di farti dire e metti giù nella carta quei brani che ancora vanno in giro sulla bocca dei raianesi».

Dopo l’esperienza come sindacalista e giornalista politico, mentre affiorava in lui il desiderio di dedicarsi all’insegnamento, riconoscendo nel confronto coi bambini il percorso necessario per istruire alla consapevolezza di sé stessi e all’autodeterminazione, Postiglione si rendeva conto che la poesia, meglio di qualunque altra cosa, sarebbe arrivata a smuovere il cuore della gente, di quelle classi “umili” (detto senza alcuna retorica demagogica) a cui egli aveva dedicato ogni scelta della sua vita. Ecco che dà voce a una madre che lo implora di scrivere al suo “fijje spierze”, lontano dalla casa per cercare lavoro («i se ne jose p’abbuscà le pane»), o a un contadino che invoca l’apocalisse per un mondo che offre soltanto fame e guerra («Scanze de mannarce fame e uerre / facesse tatazzigne ciele e terre»). Ma c’è anche una vena più intimista, come quella di A na quatrale, È remenute magge, A na rinnele e A nu ruscegneuje, in cui, pur prevalendo lo stato d’animo del poeta, intriso di mestizia e di nostalgia («pure ì la tienghe sa passieuna teje, / j’affanne de ne neite, / sa seite de n’ameure, / sa smanie de vulà»), la sola scelta della lingua dialettale, dei temi naturalistici e dei richiami al periodo dorato della fanciullezza, avvicina Postiglione al sentire popolare, rendendo i suoi versi materia viva da gustare con totalità e immediatezza.

Proprio queste qualità, oltre alla comune terra di appartenenza (entrambi erano di Raiano), avevano avvicinato Ottaviano Giannangeli alla figura e all’opera postiglioniane. Dopo oltre vent’anni dalla pubblicazione in un libro monografico curato da Vincenzo Marchesani (In memoria di Umberto Postiglione, L’Aquila, 1925), i versi del giovane anarchico avrebbero dovuto aspettare lo studio critico e filologico del giovane professore, che li avrebbe antologizzati in Canti della terra d’Abruzzo e Molise (Milano, 1958), Poeti dialettali peligni (Lanciano, 1959) e Umberto Postiglione. Antologia con ricognizione di alcuni manoscritti e testimonianze (Raiano, 1960), per rivelare all’attenzione dei lettori e della critica un’originalissima voce della poesia abruzzese (Postiglione sarà incluso da Giacinto Spagnoletti e Cesare Vivaldi in Poesia dialettale dal Rinascimento a oggi, edita da Garzanti nel 1991). Nel corso degli anni, Giannangeli tornerà più volte a scrivere sulla sua poesia e ad organizzare eventi per ricordarlo: nel 1974, per il cinquantesimo anniversario della morte, gli dedica un premio di poesia e di saggistica (coinvolge come presidente della giuria il Prof. Mario Sansone, rinomato studioso di Manzoni ma anche attento interprete della letteratura dialettale).

Stavo già lavorando con Giannangeli quando gli fu chiesto dalla scuola di Raiano di scegliere una frase da incidere su una targa all’ingresso dell’edificio. Il Professore si sorprese perché gli erano state proposte frasi di Nelson Mandela, Umberto Eco, etc.; ma sarebbe bastato restare in paese per trovare un grande interprete del concetto di educazione. Dunque si affidò a Postiglione e scelse i versi della poesia Je befuleche che ritradusse per l’occasione: «Sterpare la mala erba per gettar la semente! / Non c’è nel mondo più bella fatica. / E anch’io la faccio ché sono maestro: / do al figlio tuo il pane della mente.

Forse è proprio sull’idea d’insegnamento, sulla vocazione pedagogica, sul principio dell’imparare insegnando (enunciato dallo stesso Postiglione in occasione del Congresso Magistrale aquilano del 1923, dove tenne un intervento dal titolo significativo: L’autoeducazione del Maestro) che si fonda la grande affinità tra i due Raianesi La “semente” con cui coltivare lo spirito e l’intelletto dei propri allievi era l’unico vero tesoro a loro disposizione e quanto di meglio la loro naturale inclinazione alla poesia potesse offrire al mondo.

 

Andrea Giampietro

 

 

 

 


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