DA QUESTA PARTE DEL MARE

di Massimo di Paolo – Sono passati dieci anni, dall’uscita di un meraviglioso album di Gianmaria Testa, che cantava i fatti e i sentimenti di chi parte per migrare. “Da questa parte del mare”, premiato con la Targa Tenco nel 2007 come migliore realizzazione dell’anno. Sofferenza, vuoto, nostalgia, perdita di identità. I nuovi processi migratori, ancora oggi, sono storie di uomini e storie di sofferenza. Ultimi 10 anni e nulla è cambiato. Neppure la retorica. Dopo la notte di Cutro, con la strage avvenuta nella nostra casa, con le bare bianche allineate che tolgono il respiro, con giovani senza parola, sono emersi forti segni di cambiamento. Il cambiamento, si sa, è cosa difficile, pericolosa, coinvolge mente e spirito e allora, meglio usare il “gioco” per renderlo meno evidente. Si gioca a rimpiattino per accusare i più disgraziati. Si gioca a moscacieca fuggendo dalle responsabilità. Si gioca con i numeri, dei morti, per trovare salvezza. Si gioca ai quattro cantoni per cercare il capro espiatorio. Si gioca al paroliere per dire tutto e nulla. Si narrano “storie” per la dignità perduta. Si volta lo sguardo nella notte più buia. Questa è la sintesi drammatica che racchiude ciò che uomini, forti e di potere, hanno deciso di fare. Alle Camere, con dati statistici e lista di morti da confrontare. Neppure il bisogno di esserci. Esserci subito.

Il più vigliacco dei giochi si è ritenuto utile giocare: lo scaricabarile.

Strage di migranti. Strage di esuli. Strage di rifugiati nel nostro mare.

Sul fenomeno delle migrazioni non siamo ancora in grado di creare una risposta civile, moderna, fatta di diritti, buone prassi, umanesimo. Eppure in Nazioni che invecchiano, in paesi che si svuotano, in comunità stantie, in nidi privi di figli, abbiamo bisogno di loro. Abbiamo bisogno dell’accoglienza, abbiamo bisogno di una “metamorfosi dell’uomo moderno”. Il “chi sono io?” è la dimensione ultima e nascosta di ogni esule ma diventa anche la nuova dimensione di chi accoglie. Chi accoglie deve rinunciare per donare. Deve perdere, in parte, quelle stratificazioni etnologiche, fatte di tradizioni, usi, consuetudini, rituali che danno sicurezza alle comunità chiuse, ma che possono anche inaridire. Chi accoglie deve cercare ugualmente la risposta al “chi sono io?”.  Noi avremo la nostalgia del passato come loro, che arrivano, avranno la loro.  Ma la nostalgia ha un doppio. Può dare forza per il ritorno, può rafforzare l’identità, ma può uccidere l’animo se nutre l’esclusività e l’isolamento. Forse noi, che dovremmo accogliere, abbiamo bisogno di nuove costruzioni mentali per facilitare il nostro ingresso in un nuovo mondo, in una nuova dimensione di cittadinanza, di popolo, di nazionalità. Chi parte e chi è lasciato, vive l’evento del migrare come evento luttuoso di perdita, di pericolo, di dimenticanza. Il pianto esprime il dolore per il lutto.  Chi accoglie, vive la speranza di ricevere nuova forza, nuova linfa, liberandosi del sospetto e riconoscendo le possibilità che si aprono nell’incontro con l’esule.

Ennio Flaviano diceva: “ho una tale fiducia nel futuro, che faccio progetti solo per il passato”. La Comunità di Sulmona vive, per i processi migratori, come per tante altre cose, un senso di isolamento che è anche protezione. Come se la valle, con il perimetro montano, una ferrovia antica, un’autostrada a scorrimento ridotto e una consolare esausta, fosse esente dai fenomeni che toccano Cutro o Lampedusa. Eppure sono arrivati anche da noi migranti, esuli, rifugiati.  Sono arrivati con le loro storie, che descrivono il trauma delle migrazioni forzate, con i grandi temi dell’identità e del disagio di vivere.  Pochi giorni fa nella Sala Consiliare si celebrava una giusta festa. Oggi, forse,  si dovrebbe celebrare Sulmona città dell’accoglienza, dell’approdo sicuro. Non con una festa, ma con una riflessione e con una formalizzazione da parte del Consiglio tutto. Un “atto” per sancire la posizione della nostra comunità. Sarebbe anche interessante, considerando la prossima rivisitazione degli assessorati, pensare al “Assessorato del rifugiato” dotato di una sorta di “telepatia” tra chi arriva e chi accoglie, fatta di servizi e attività, compiti, economie, prassi da sviluppare e responsabilità. Dall’accoglienza alla gestione dei centri e delle case famiglia, dalle azioni preventive ed educative, all’inserimento. Dall’analisi allo studio del fenomeno in valle. Cosi tra una targa da affiggere, una strada da nominare, una cerimonia da inaugurare si potrebbe risentire, dentro ognuno di noi, la convinzione di: “Sulmona Città dell’amore”.