PER LA SCOMPARSA DI DAMIANO VENANZIO FUCINESE

Ieri pomeriggio se n’è andato Damiano Venanzio Fucinese. Per gli amici era “Nino” mentre restava “il Professore” per chi, anche nella confidenza della quotidianità, provava per lui un sentimento di deferenza. Io ero stato accolto nella schiera dei suoi amici eppure non sono mai riuscito a chiamarlo Nino, come lui mi esortava a fare, ma soltanto Professore. Questo senso di piccolezza di fronte a uno dei pochi galantuomini che ho avuto la ventura di conoscere, capace di condividere, con paterna semplicità, una conoscenza macinata in anni di studi e di pratica culturale, non mi ha mai abbandonato. L’ho sempre considerato una delle migliori “eredità” ricevute da Ottaviano Giannangeli (anche lui era “il Professore”), al fianco del quale ho avuto modo di scoprire il meglio della nostra terra che ha trovato in operatori culturali come Fucinese la possibilità di prosperare e di definire la propria identità. Entrambi erano legati visceralmente a Raiano, il paese natale di cui hanno auscultato instancabilmente la storia più nascosta, quella ereditata dai racconti degli avi e rinvenuta nelle scoperte documentali, letterarie, artistiche e archeologiche.

Andare a trovare Fucinese a casa significava intrufolarsi in un’oasi familiare come non ce ne sono più: la sua signora, Oliva, mi accoglieva sempre sorridente senza mancare di offrirmi una tazza del suo ottimo caffè, mentre io e il Professore – lui accomodato in poltrona, maneggiando l’immancabile pipa, e io sul divano attiguo – iniziavamo a chiacchierare. Solitamente gli raccontavo le mie ultime scoperte nell’archivio dell’amico più caro (dalla scomparsa di Giannangeli avevo preso a riordinare e catalogare tutte le sue carte e i suoi libri) ed ogni volta finivamo per ricordare nomi e fatti di un tempo così lontano dalla consuetudine da sembrare ancestrale, sicuramente perduto. Un tempo che tornava a vivere grazie alla capacità narrativa del padrone di casa, con quella voce da basso che a tante Maggiolate e Serate Canore raianesi aveva prestato la sua perfetta intonazione e la sua viva musicalità. I momenti migliori erano proprio quelli in cui ci si abbandonava alle canzoni (Fucinese era una grandissima “seconda voce”) e alla parlata dialettale – raianese la sua e pratolana la mia – di cui sentivamo la comune radice melodica prima ancora che linguistica e storica.

Lo scorso inverno avevo disseppellito una delle sue rare ma elegantissime prove poetiche da un vecchio numero della rivista parrocchiale “L’Eco della Valle di S. Venanzio”. Neanche lui ricordava quel componimento dialettale quando gli domandai il permesso di includerlo in un libro-strenna ideato dall’associazione culturale sulmonese “Voci e Scrittura”. Insieme rivedemmo addirittura il metro di alcuni versi e della traduzione mi curai io stesso. La poesia, ambientata durante la vigilia di Natale, aveva una connotazione amara: più forti del tempo, che «passe e corre gne lu vente / che fischie quand’abbocche da la Valle», decisi a non arrendersi, a non farsi trascinare «come li fiuòcche / de la neve ’mmezz’a la schiaravente», sono i ricordi, capaci di sembrare spenti, perduti, e poi all’improvviso, «quande ma’ te crite, / te se presente ’nnanze, allumenate, / gne nu specchie lucente»; tutto questo mentre la neve scende, il camino arde e, nonostante la gioia per la nascita del Bambino, un pensiero raffredda il cuore: « Ma quante facce sta santa Natale / ’ccante a lu ticchie nen ce stanne chiù». Fu una bella soddisfazione potergli consegnare il volumetto in cui il suo nome figurava insieme a quello dei grandi poeti della regione, come Modesto Della Porta, Vittorio Clemente, Alfredo Luciani, Cosimo Savastano e l’amico Ottaviano Giannangeli.

Lo scorso 22 luglio, in occasione dei suoi novant’anni, non potendo essere presente alle celebrazioni tributategli dai suoi concittadini, andai a trovarlo per portargli il testo del mio intervento che sarebbe stato pubblicato sulla testata che oggi mi ospita (“Per i novant’anni del Professore Damiano Venanzio Fucinese”, 23 luglio 2022). In quello scritto ebbi modo di tracciare, anche se per grandi linee, il suo straordinario percorso in seno alla cultura abruzzese, come docente e studioso di arte, architettura e archeologia ma soprattutto di tradizioni popolari. Non mancai poi di rievocare la storia e la caratura della sua amicizia con Giannangeli, il quale, in occasione di una presentazione, ebbe a riconoscere in questi termini l’origine del loro sodalizio: «… ci era comune l’amore, non sostanziato solo di passione generica o direi naturale per il proprio paese, per la propria valle, per la propria regione, ma per la memoria storica e culturale di tali territori che formava – si potrebbe dire – l’anima di quella passione e di quel sentimento».

Oggi Fucinese ci lascia con la riservatezza con cui ha sempre vissuto e con la testimonianza di una qualità assai rara: la signorilità, tanto nei rapporti umani quanto nell’attività culturale. Aver sempre coltivato, da parte sua, l’ideale dell’amicizia come base imprescindibile per costruire ogni progetto di vita, di studio e di ricerca, permette a chi l’ha conosciuto di serbare un ricordo che, pur se affidato a creature mortali, ha già il peso dell’eternità. Grazie, dunque, Nino. (Alla fine ce l’ho fatta!)

                                                                                                                                       Andrea Giampietro

 

                                                                                                                               

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