IL RICORDO DI MASSIMO LELJ SULLA RIVISTA “DIMENSIONI”

Siamo agli inizi del 1963 e l’Abruzzo si appresta a celebrare il Centenario Dannunziano. Eppure la rivista “Dimensioni”, che pure riporta un discorso sull’autore pescarese (con argomentazioni assai sottili, fuori d’ogni retorica positiva o negativa) tenuto da Carlo Bo, non manca di celebrare un suo degno conterraneo: Massimo Lelj, nato a Tione degli Abruzzi nel 1888 e scomparso a Milano nell’aprile del ’62.

A ricordarlo, nel numero che inaugura l’anno dannunziano (a. VII, nn. 1-2, gennaio-aprile 1963), è lo stesso fondatore di “Dimensioni”, Ottaviano Giannangeli, che la dirige insieme agli amici Giuseppe Rosato e Giammario Sgattoni. Così esordisce: “A quella terra dalla quale si era mosso da giovane, in cerca di ventura letteraria, e che non aveva più rivisto, per quaranta anni, se non nel raptus del ricordo e della immaginazione, ritorna da morto Massimo Lelj. È una vicenda, certamente abnorme, questo sradicamento dalla propria amata, osannata, alleluiata patria, ma così comune per molti abruzzesi che non vale più la pena di ritesserci su dei discorsi a base di fronzoli retorici e di luoghi comuni” (p. 32). L’autore infatti, che trascorse gran parte della sua esistenza lavorando come giornalista a Milano (ad eccezione di quando, richiamato in guerra nel 1915, si distinse valorosamente sul fronte macedone), aveva ritrovato l’Abruzzo solo nelle pagine dei libri, sebbene conservasse nell’estro e nella favella l’impronta peculiare della sua gente.

Così Giannangeli ricorda il suo iniziale approccio al nome, prima ancora che all’opera, di Massimo Lelj: “Noi ne udimmo parlare da giovinetti e fummo subito adescati dalla poesia di un titolo, solo di un titolo: ‘Stagioni al Sirente’, che pare sia quello del suo capolavoro. Il Sirente è una montagna chiusa nell’acrocoro abruzzese, una montagna che taglia e staglia dentatamente il territorio peligno da quello marso, una montagna altamente suggestiva, (…) sulla quale gli uomini, dai pantaloni di velluto rugoso come quei costoni, si arrampicavano per cercare la valeriana ed altre erbe medicamentose; sulla quale le donne andavano a cogliere le fragole per portarle a Roma (…) ; dove fioriva l’industria della legna, delle frasche (…) e del carbone” (p. 32).

Viene riportato un brano di “Stagioni al Sirente”, annunciato in questi termini: “Il libro odora di terra e di cielo: sembra spaccato, ‘crepato’ dal sole. Lo scrittore invasato crediamo abbia espresso il meglio di sé nel capitolo finale, che vi presentiamo. In questa specie di ‘balletto’ gli uomini appaiono come riassorbiti nel respiro della natura, immutabile, inesorabile” (p. 33). Si tratta proprio di un “balletto”, dove si alternano il sole (“quando […] piombava spaccando la roccia, tutta la valle pareva che cuocesse”, p. 33) e la luna (“usciva dal mare, così dicevano, e infatti s’affacciava sulla vallata ancora grondante e impastata di sonno”, p. 34), in una coreografia che rende protagonisti uomini, donne, fanciulli e animali, dapprima sfiancati dal peso della calura e poi rianimati dall’incanto serale. La narrazione, capace di impastare l’efficacia figurativa con la grammatica musicale, si avvale di un ritmo poetico che disegna l’immagine con moto ora allegro ora moderato, fino a un “accelerando” che risolve la frase nella misura più aderente al “pathos” del discorso: “Come uno zampillo, dal folto del sambuco, saliva allora il canto dell’usignolo, fedele a quel luogo e alla stagione, e trilli, richiami, invocazioni, preghiere, saccenterie, petulanze, riflessioni e perorazioni, proposizioni ripetute e ripetute, insistenze e variazioni, cortesie e spavalderie, noncuranza, malinconia, gelosia, minuetti, inchini, cerimonie: un interminabile balletto patetico incantava l’aria tra le case della piazza” (p. 34).

Ma gli omaggi per Lelj non sono finiti ed è lo stesso Giannangeli ad annunciarli: “Ora, nell’anniversario della morte, molti amici converranno in Abruzzo e si recheranno a rendere onore allo Scomparso, nel suo paese natio, Tione, in provincia dell’Aquila. Scopriranno una lapide sulla sua casa e un busto nella Scuola Elementare del villaggio. È quanto basta per essere sollecitati ad una riscoperta, ad una rilettura delle sue opere...” (p. 32). A queste celebrazioni (2 giugno 1963) parteciperanno i tre direttori di “Dimensioni”, il “triumvirato aprutino”: il peligno Giannangeli, il lancianese Rosato e il teramano Sgattoni. Sarà presente anche la studentessa pratolana Anna Di Cioccio (pupilla della Prof.ssa Ginevra Colucci che aveva fatto conoscere all’amico Ottaviano l’opera di Lelj), invitata a recitare alcune pagine di “Stagioni al Sirente”. Nel numero successivo della rivista (a. VII, nn. 3-4, maggio-agosto 1963) è Rosato a descrivere l’arrivo a Tione per l’evento commemorativo: “Si procede a scatti, a rapide riprese, a rare lunghe tirate sulla strada provinciale che lasciata l’Aquila, le sue cento contrade, i diruti castelli che ne attorniano i colli, prende ora a costeggiare l’Aterno, a pochi metri dal fondo valle, tra macchie agili di salci e ciuffi più scuri di querce. (…) Lì è Tione, ora semicoperto dal terreno che sale a terrazze: la stradetta che vi si arrampica compie otto, nove serpentine e l’auto vi passa appena. (…) Andiamo verso la patria di Massimo Lelj. (…) La casa è lì, a un tiro di schioppo da questa piazza in cui ora facciamo scalo e dove tutto è già stato predisposto dall’affetto, dalla sensibilità, da questa commovente e sobria civiltà contadina e montanara, per il ritorno di Lelj, ritorno ideale che solo la morte è riuscita finalmente a compiere. È qui il vero, l’intatto Abruzzo, non travisato dalla retorica, nemmeno millantato dal turismo che qui non è ancora giunto” (p. 22).

Con altrettanta precisione, dopo essersi soffermato a raccontare del compaesano di Lelj, il poeta e critico Giovanni Titta Rosa (natio di Santa Maria del Ponte, dapprima frazione di Fontecchio e poi compresa nel comune di Tione), anche lui espatriato a Milano e tornato nei luoghi d’infanzia per ricordare l’amico, Giuseppe Rosato riprende a descrivere la manifestazione e i suoi partecipanti: “Siamo duecento, trecento, contadini e ospiti, autorità provinciali, la vedova di Lelj, la sorella, i figli, il giovane sindaco […] , Ferdinando Flora, fratello del compianto Francesco, Nicola Ciarletta che sarà, tra poco, l’oratore ufficiale, Giovanni Pischedda dell’università aquilana, il buon Antonio Silveri presidente della ‘Dante’ aquilana e diretto… responsabile di tutto” (p. 24). Quand’ecco che si fa avanti il primo oratore: “Titta Rosa parla, un po’ leggendo, un po’ improvvisando, un po’ commuovendosi; e forse non ha coscienza di star rivelando esplicitamente il suo segreto, che s’identifica con quello di Lelj” (p. 24). Con ciò Rosato si riferisce ad un passaggio del discorso, che è possibile leggere sullo stesso numero della rivista, in cui Titta Rosa sottolinea quello che per Lelj fu “l’amore del suo paese, e di questo dov’era nato, e dove da molti anni non era tornato più, sebbene lo amasse in segreto, d’un amore schivo, pudico, e quasi scontroso, come accade agli abruzzesi di buona, antica razza, che hanno l’invincibile pudore dei loro affetti” (p. 25).

Proprio a questa indole riservata, a questo spirito la cui statura “dolomitica” ricorda i picchi del Sirente, Nicola Ciarletta dedica un profilo critico-biografico in cui ricorda l’amico nella Roma degli anni ’30, dove, nel Caffè Aragno, si muoveva tra il tavolo dei giuristi e quello dei letterati: “Una figurina snella e finissima, con una testa da Baudelaire e la sigaretta perennemente appiccicata al labbro. Aveva un’aria canzonatoria e parlava poco, con un tono di dolce cantilena, come abbiamo spesso noi Abruzzesi. Avvocato, conosceva bene – anche per essere stato studente di più d’uno di essi – il tavolo dei giuristi. Ma conosceva bene anche il tavolo dei letterati, dai quali era ritenuto uno storico o filosofo o concepitore di idee. Da abruzzese, Egli era ben conscio di ciò che era: era un ‘uomo di cultura’…” (p. 29). Riconosce in Massimo Lelj un “umanista”, figlio della migliore cultura meridionale: “Egli veniva su dal ceppo di quel glorioso enciclopedismo napoletano che fa capo a Vico e che tanto alimento trasse dagli abruzzesi (…) : dall’abate Galiani a Ottavio Colecchi, a De Meis, agli Spaventa, al Filomusi, al Croce che dominava in quegli anni Trenta lo spirito della cultura italiana” (p. 29).

Eppure, diversamente da Croce che, in base alla sua “Estetica”, “era da ritenersi piuttosto come l’epigono delle concezioni romantiche che non come il frutto della classicità” (p. 30), Lelj “si sentiva più classico dei classici, o almeno più antico di essi, con uno spirito che si sentiva italico fino al midollo e considerava […] ‘vile ed assurdo cambiar natura e nazione’” (p. 30). Ciarletta continua analizzando le opere che maggiormente hanno caratterizzato la sua attività letteraria, riscontrando un netto divario tra “Stagioni al Sirente” (Vallecchi, 1933) e i successivi “Via Gregoriana” (Bompiani, 1951) e “Mezzaluna grigioverde” (Bompiani, 1956). Arriva ad affermare che “se in ‘Stagioni al Sirente’ Lelj è uno spettatore dell’Abruzzo, nei due romanzi è lui, ‘lui’ che racconta, incarnazione dell’Abruzzo. Movendo dall’alto di una cultura conquistata, Egli ridiscende alla base, fino a ritrovarsi nel cuore della sua nascita, fino a ritrovare l’acqua sotto la terra del suo suolo” (p. 31). Ciarletta insomma riconosce l’autore tionese nel preciso sviluppo della sua poetica narrativa, oltre che nell’identità del suo percorso umano e culturale.

Ci auguriamo che questo intervento basti a dimostrare l’avventatezza di quanto affermato tempo fa su un quotidiano teramano, secondo cui dopo la scomparsa di Massimo Lelj “un assoluto silenzio è (…) caduto sul suo nome e sulla sua opera”. Così non è stato. L’impegno della rivista “Dimensioni” nella rivalutazione del suo “nome” e della sua “opera” merita di essere ricordato e giustamente stimato.

 

Andrea Giampietro