LA CULTURA DELLE ETICHETTE

Alessandro Lavalle – L’uomo fin dagli albori si è dimostrato attento e meticoloso nella sua grande catalogazione di tutto ciò che lo circondava: con versi, parole, icone ed infine la scrittura abbiamo titolato e catalogato ogni singolo essere od oggetto, conoscibile e non. Tuttavia, spinti da un irrefrenabile desiderio di conoscibilità, e non conoscenza badate bene, non ci siamo fermati ad oggetti, concetti, piante e animali: siamo arrivati ad un punto in cui sentivamo la necessità di catalogare noi stessi. Il genere umano, raggiunto il livello di complessità necessario, ha oltrepassato la categorizzazione strettamente necessaria per sfociare nel pleonastico: abbiamo cominciato a catalogare persone basandoci su genere, etnia, cultura, pelle, morale, idee, sentimenti, desideri erotici e molto altro ancora. Di base non è un concetto sbagliato: identificare una persona, metterla all’interno di categorie tipizzate, ci permette di avere un’idea generale, un preconcetto di quella persona per renderla ai nostri occhi meno imprevedibile e, di conseguenza, più facilmente conoscibile. Va da sé, però, come questa prassi possa facilmente sfociare nel pregiudizio e nell’emarginazione; ne abbiamo dato ampia dimostrazione nei secoli e secoli di barbarie che abbiamo compiuto in nome questa “catalogazione gerarchica” della nostra specie.

 

Questa maniacale raccolta capitolare ha un secondo risvolto, anch’esso negativo: l’esclusività.

 

L’appartenenza ad una categoria, ad un gruppo, ad un ceto, ad un credo, ad un pensiero è un desiderio intrinseco all’animo umano, desiderio che lo spinge sempre a cercare di identificarsi in qualcosa che è più grande del singolo individuo; purtroppo, ancora una volta, il denso, rapido e radicale cambiamento che la nostra società ha vissuto nell’ultimo secolo ha segnato una svolta considerevole sotto il profilo di questa naturale identificazione: siamo stati spinti a cercare gruppi sempre più elitari a cui appartenere. Siamo arrivati a confondere la “nicchia” con “l’aristocrazia”. Nelle acque torbide dell’insicurezza pensiamo, giustamente, che appartenere a qualcosa che è più vasta di noi ci possa aiutare a superare queste nostre fragilità: raggrupparsi, far parte di un insieme è infatti sinonimo di inclusività, di “forza nel numero” e dunque è un ottimo strumento per sollevare sé stessi e contemporaneamente anche gli altri; per l’appunto, tengo a sottolineare, è l’eccesso che porta con sé il danno: non creiamo più il gruppo come strumento di inclusività, ma come mezzo di esclusività, come organo per schiacciare il prossimo facendo apparire chi schiaccia più in alto; inutile sottolineare gli aspetti negativi di questa usanza.

 

Personalmente comprendo il senso di questo metodo ancestrale di categorizzare ogni singola entità esistete: la categorizzazione equivale alla conoscenza e la conoscenza equivale alla prevedibilità che ci fa sentire al sicuro. Da qui nasce appunto la proverbiale “paura dell’ignoto” che stritola e comprime l’animo di ogni essere umano. Tuttavia è importante fare una distinzione tra “categorizzazione” e qualsiasi forma di violento pregiudizio.

L’identità di una persona non si specchia solo nei propri gruppi e nelle proprie categorie: la cultura delle etichette è solo un modo come un altro per isolarci sempre più, per creare vuoti standard da far diventare norma inderogabile ed universale.

L’identità di una persona non è necessariamente uguale all’insieme di etichette e categorie che le sono state affibbiate da una società che di quella persona, alla fin fine, non sa nulla che vada oltre le suddette etichette e categorie.

L’identità di una persona è vasta e mutevole: cercare di contenere, di dominare l’ignoto è sì necessario alla nostra psiche, ma ciò non ci dà il diritto di abusarne come stiamo facendo oggigiorno.

 

La verità sta, come sempre, nel mezzo: la moderazione è la guida che serve ad una società improntata sull’eccesso in ogni campo come la nostra, un freno che va posto all’incessante e maniacale desiderio di identificarsi in una pantomima di comunità elitaria improntata all’esclusività.

Sostenerci a vicenda nelle nostre diversità: di questo ha bisogno la nostra specie in questo cupo
momento di isolazionismo pilotato. Siamo tutti esseri umani.