CON LO SGUARDO SUL MAR NERO

di Annalisa Civitareale

Amore, poesia ed esilio. Penso ad Ovidio, a pochi giorni dall’anniversario della sua nascita. Era il 20 marzo del 43 a.C., quando nacque a Sulmona da agiata famiglia equestre. Duemilasessantacinque anni fa. Penso e scrivo di Ovidio, provando a mettere un po’ da parte la “deformazione scolastica” e quelli da cittadina. Per la verità non è così difficile. Sollevando lo sguardo dalla tastiera, accanto a libri e fogli di appunti, quotidiani nazionali. Uno è aperto su una pagina che sembra essere uguale ormai da troppi giorni, quella del conflitto in Ucraina. Una carta geografica. Quell’immagine, in cui fuochi e simboli di bombe, che stilizzati provano – invano – a fare meno paura, mi riporta al nostro poeta e, con lui, alle sponde del mar Nero. Era l’8 d.C, quando, all’apice della sua fama, un provvedimento dell’imperatore Augusto lo spedì sulle coste della Scythia minor, presso Tomi, l’attuale Costanza, in Romania, dove morì, una decina di anni più tardi, senza essere riuscito nell’intento di farsi alleviare quella pena, né da Augusto prima, né dal successore Tiberio poi. 

Perdiderint cum me duo crimina, carmen et error,

alterius facti culpa silenda mihi. (Tristia, II, vv. 207-208)

«Sono due le ragioni che mi persero, un carme e un errore:

di ciò che attiene all’ultima, devo a forza tacere.» (trad. Paolo Fedeli)

Ai motivi della condanna è lo stesso poeta sulmonese che allude, nelle elegie dell’esilio. Sull’errore meglio non indugiare, forse per non riaprire le ferite di Cesare. Roba di donne e di amori, però, liberi. Troppo per le due donne di casa imperiale, Giulia Maggiore e Giulia Minore, sorella e nipote del divus, che con la loro condotta licenziosa, di imbarazzi gliene avevano creati parecchi, al punto da meritare, entrambe, un “soggiorno” lontano da Roma. Per Ovidio, forse tra i beneficiari e tra i complici dei piaceri imperiali, la condanna fu inevitabile. Sul carmen meno dubbi: l’Ars amatoria il libello con cui poeta si autoproclamava “maestro d’amore”, lui scalando così la virtuale classifica dei best seller dell’età augustea, i suoi amorosi consigli correndo di bocca in bocca. Declinati al maschile e al femminile, nell’inesauribile proscenio della Roma augustea. Ché piacere e piacersi sono universali. Ma vallo a spiegare all’imperatore. A quell’imperatore che aveva voluto severe leggi sui costumi dei suoi cittadini.

Perciò inevitabile per il poeta la condanna agli estremi confini del mondo.  Tra gelo e barbari. 

Proxima sideribus tellus Erymanthidos Vrsae

me tenet, adstricto terra perusta gelu.

Bosporos et Tanais superant Scythiaeque paludes

uixque satis noti, nomina rauca, loci.

ulterius nihil est nisi non habitabile frigus:

heu quam uicina est ultima terra mihi!

«Mi tiene una terra, vicina alla costellazione dell’Orsa di Erimanto, 

terra bruciata dal gelo indurito. 

Stanno sopra il Bosforo, il Tanais, le paludi di Scizia 

e qualche altro luogo appena conosciuto.

 Più oltre  non vi sono altro che freddi inabitabili. 

Ahi! quanto mi è vicino il confine del mondo!» (trad. Della Corte-Fasce).

Per la verità Tomi, come ricorda Paolo Silvestri (Id., Le parole dell’esilio, in AA.VV.,  Atti delle giornate di studio Liceo Classico “Ovidio” – Sulmona 2007-2008. Ovidio: l’esilio e altri esili), certamente più settentrionale di Roma e di Sulmona, non era la gelida terra dei barbari che pure in altri luoghi il poeta menziona, ma, pur nell’esagerazione narrativa, lo sradicamento e la culpa segnano profondamente l’allontanamento di Ovidio da Roma.  Lo immagino, lo sguardo al Mar Nero e il pensiero alla sua terra e alla sua Fabia. E non posso far a meno ancora una volta di pensare al popolo ucraino che adesso, in queste ore, guarda con timore e angoscia, a quello stesso mare, tra bombe e sirene che lo separano dalla speranza. Non posso fare a meno di pensare agli addii e alle lacrime di quella gente martoriata. Alle separazioni di bimbi dai padri, di donne dai mariti, di uomini e donne strappati dalla propria terra. Mi pare di sentirli i versi di Ovidio, di cui, proprio in quella terra, una città e un lago portano il nome.

«La sposa amorosa tratteneva me piangente, piangendo più forte

Mentre le lacrime continuavano a cadere sulle gote innocenti.

[…] Da qualsiasi parte si guardasse risuonavano lutto e gemiti,

all’interno c’era l’apparenza di un funerale rumoroso.» (Tristia, I, 3, vv. 17-20).

Il canto elegiaco scandisce i tempi dell’exilium. Un termine che in questi giorni appare ancor più doloroso. Come intriso di dolore è l’essere sbalzato fuori (ex) dalla terra (solum), la propria terra, elemento a cui etimologicamente i latini collegavano il termine, sebbene il riferimento più probabile sia al verbo ambul- ‘vado in giro’, per cui esule è ‘colui che va fuori’. Con violenza, spregio, angoscia. Per la verità quella di Ovidio era stata una condanna alla relegatio più che all’esilio, termine e sintomo di una sorta “principesca attenzione” nei suoi riguardi (Silvestri). Quello che pesa, al di là della terminologia e dei tempi oserei dire, è la condizione dell’anima di chi conosce l’amarezza dell’esilio. Sia esso tra gente diversa, nel senso negativo del termine, come per Ovidio, fiera, ostile, inumana quasi, o tra gente pronta ad accogliere. Il dolore può essere alleviato, ma non per questo reso meno amaro.  

Cum subit illius tristissima noctis imago,

Quae mihi supremum tempus in Urbe fruit;

Cum repecto noctem, qua tot mihi cara reliqui;

Labitur ex oculis nunc quoque gutta meis.

«Quando mi sovviene la tristissima immagine di quella notte

nella quale passai i miei ultimi momenti nell’Urbe,

quando ripenso alla notte in cui asciai tante cose a me care,

anche ora le lacrime mi scendono dagli occhi.» (trad. M. G. Iodice Di Martino)

Tristissima è la notte dell’addio a Roma e ai suoi affetti, descritta da Ovidio durante il viaggio dall’Italia a Tomi (Tristia, I, 3, vv. 1-4). In un sorprendente ribaltamento di toni, rispetto a quelli consueti per il poeta d’amore, qui l’elegia canta, con autentica commozione e profonda efficacia, tutta la sofferenze del poeta profugo (Tristia, I, 3, vv. 7-10.):

«Non avevo avuto né tempo né cuore sufficienti a prepararmi:

il mio animo era intorpidito in un lungo indugio;

non mi preoccupai di scegliere né servi, né amici,

né vesti e tutto il necessario adatto ad un profugo.»  (trad. M. G. Iodice Di Martino)

Può esserci mai animo o altro adatto a chi è costretto lasciare la propria terra? Forse solo la speranza, quasi racchiusa in quel prefisso pro. Pro-fugere  Fuggire, correre avanti. A cercare una spinta verso una via di scampo. Mi si perdonerà questo azzardo, che i tempi e uno spazio di quasi due millenni mi impongono tra queste righe. Ma la forza dei classici, forse, sta anche qui, in quella capacità di esercitare «un’influenza particolare sia quando si impongono come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo e individuale» (I. Calvino, Perché leggere i classici). L’importante è non perdere la prospettiva da cui li si guarda. Cito ancora Calvino: «L’attualità può essere banale o mortificante ma è pur sempre un punto in cui situarci per guardare in avanti o indietro. [,,,] Ecco dunque che il massimo rendimento della lettura dei classici si ha da parte di chi ad essa sa alternare con sapiente dosaggio la lettura d’attualità. E questo non presume necessariamente una equilibrata calma interiore: può essere anche il frutto d’un nervosismo impaziente, d’una insoddisfazione sbuffante». Quel nervosismo, e non certamente l’equilibrata calma, oggi sono i miei.  E in questo tentativo umano di capire, lascio parlare ancora Ovidio. E tra i suoi versi dell’esilio trovo anche il suo desiderio di comunanza con quegli amici lontani, ma mai dimenticati. Sua ulteriore ragione di vita. Talvolta poeti anche loro.

Come nel caso dell’Epistula Ex Ponto a Pompeo Macro (Ex P. II 10, 17-18)

Sunt tamen inter se communia sacra poetis,

diversum quamvis quisque sequamur iter

«Tuttavia i poeti mantengono riti comuni,

pur seguendo ognuno strade diverse.» (tr. di Paolo Fedeli)

Trovo il suo mai sopito desiderio di dirsi poeta. 

Io non lo so in questo assurdo conflitto contemporaneo, ai confini dell’Europa e nel cuore degli uomini, chi vincerà. Anzi non vincerà nessuno, ché in guerra di vincitori non ce ne sono. Ma so che quando tutto sarà finito ricorderemo anche la violinista Vera Lytovchenko, che nel rifugio antiaereo ha preso il suo violino e ha iniziato a suonare perché tutti si dimenticassero per qualche istante della guerra. So che ricorderemo il concerto partito da un seminterrato di Kyev, con cui Ilia Bondarenko, giovane violinista ucraino rifugiato insieme alla famiglia in un bunker, ha virtualmente unito 94 violinisti da 29 Paesi nel mondo. 

«Se i miei versi avranno – e li avranno di certo – dei difetti,

cerca, lettore, di giustificarli con le circostanze.

Ero in esilio, e cercavo il sollievo con la gloria,

perché non fosse, la mente, sempre rivolta alle sventure.»

(Tristia, IV 1, vv. 1-4; trad. G.B. Conte – E. Pianezzola)

So che ci ricorderemo di Mia, la bambina nata nei sotterranei della metro di Kiev e della la vita tra le bombe. Perché è l’amore che muove il mondo e l’arte e la poesia contribuiscono a renderli eterni (Tristia, III 7, vv. 43-52): 

«Non voglio discutere ogni singolo caso, ma di non mortale, noi, nulla

conserviamo: solo i tesori del cuore e dell’intelligenza.

Io, per esempio, non ho più patria; non ho voi, non ho casa;

m’hanno tolto tutto, tutto quanto si poteva.

Ebbene, ho il mio talento, qui, con me. Un caro appoggio.

Non ha avuto giurisdizione in questa sfera, Cesare, nessuna.

Faccia finire, chi vuole, la mia vita con spada di ferocia.

Io sarò spento, ma svetterà la mia fama, a me superstite;

e fino a quando dai suoi colli Roma vedrà

tutto il pianeta inginocchiato, sarò letto io». (Trad. di  E. Savino)