ESCLUSIVO NON E’ MIGLIORE
Alessandro Lavalle – E’ straordinario, apparentemente impossibile, che in un periodo in cui abbiamo ogni sorta di mezzi per connetterci l’uno all’altro in maniera semplice, le relazioni sociali stiano diventando sempre più complesse e ardue da decifrare.
E’ naturale che per relazionarsi con il prossimo è necessario un minimo di furbizia nello scegliere cosa dire loro e quando dirlo; ogni persona – che lo voglia o meno – ha una quantità minima di pregiudizi sul prossimo, pregiudizi basati su passate esperienze, sensazioni, intuizioni o più semplicemente su come appare ai nostri occhi; tuttavia questi pregiudizi pare che si ingigantiscano tanto più ci sentiamo connessi: conoscere le persone è diventato più rapido tanto più grandi si sono fatti i nostri pregiudizi. Oggi è d’abitudine bollare, etichettare le persone a nostro piacimento, senza conoscerle a fondo; un’abitudine che, essendo di tutti, ha creato un fenomeno che non permette a nessuno di esprimersi pienamente, di fare le proprie considerazioni, di aprirsi, di essere se stessi: ha creato un silenzioso regime di paura del prossimo.
Quante volte vi è capitato di provare ansia quando si doveva uscire o conoscere qualcuno di nuovo? E non parlo di quella “ansietta” da esame, parlo di ansia vera, di quella che ti fa stare un po’ più sveglio la notte, di quella che ti porta a prefabbricare ogni tua singola azione e parola per raggiungere la massima gradevolezza, quell’ansia che ti rende timoroso di parlare con gli altri per paura che ti fraintendano, per paura che ti mettano da parte, per paura che ti etichettino. Questa pratica ci sta lentamente trasformando in delle macchine, e come tutte le macchine stiamo divenendo poco umani e costruiti in serie. Tante e tante volte ho visto persone dichiarare i propri interessi, unici e bellissimi, per poi sotterrarli – perfino odiarli – sostituendoli all’ultimo secondo solo perché erano presenti determinate persone; quanta palese falsità spacciata per realtà solo per risultare gradevoli; questo modo di agire dona ad un’elite di persone (coloro che più tra tutti elargiscono etichette) potere su tutti gli altri perché basterebbe una loro semplice parola contro qualcuno per farlo cadere in basso nella scala sociale; da qui anche fenomeni come il tanto controverso bullismo.
E’ divenuto tutto così astruso e arduo in un’era dove non potrebbe essere più semplice comunicare; abbiamo reso, anzi, era diventato necessario rendere il nuovo modo di relazionarsi così complesso solo per riuscire a mantenere i rapporti di forza tra chi il sistema lo capisce e lo sfrutta e chi non lo comprende e viene sfruttato (un rapporto che si ripete spesso nella storia umana); rapporti che, grazie ai nuovi mezzi di comunicazioni interattivi e aperti a tutti, sarebbero altrimenti crollati.
Il detto “non è bello ciò che bello, ma è bello ciò che piace” in un periodo come questo calza a pennello: solo quello che piace ai più è considerato accettabile, ogni cosa diviene una moda e come ogni moda essa è passeggera, soggettiva ed esclusiva. Abbiamo fatto dell’escludere il prossimo un’arte facendolo angustiare ad ogni nostro comportamento anomalo o che non irradi consenso e approvazione. E facciamo di più: elargiamo ansie e dubbi ad altri solo per sentirci noi stessi approvati dal resto del gregge, solo per essere etichettati a nostra volta come “il capo”; un ruolo che, come una banderuola, cambia a seconda di come tira il vento. Si è generato un circolo vizioso che non lascia libero nessuno, neanche coloro che lo hanno creato, un circolo che ci intrappola in ripensamenti, ansie, dubbi, rimorsi, rabbie, incomprensioni che ci costringono a pensare a modi sempre nuovi di ripresentare noi stessi agli altri, a modi sempre più omologati di parlare, di pensare, di agire in nome dell’approvazione che tanto disperatamente cerchiamo.
E’ complicato, lo ammetto io stesso, non rimanere invischiati in questo gioco malevolo.
Tutto ciò che serve per incominciare a distaccarsene è sapere dove ricercare l’approvazione o meglio cercare coloro di cui veramente ci interessi l’approvazione: ritagliarsi le amicizie, sacrificare la quantità per la qualità, trovare un gruppo di persone dove, indipendentemente da ciò che diciamo o facciamo, ci sentiamo sempre a nostro agio.
Questa, paradossalmente, non è l’epoca della globalizzazione, bensì l’epoca del disagio globale: stiamo lentamente cadendo in un baratro di esclusione reciproca che noi stessi stiamo scavando, un baratro da cui si può uscire solo se si lavora insieme.
Vorrei aggiungere qualcosa al detto popolare sopra citato, qualcosa di semplice che però cambia radicalmente il significato di quella frase: “non è bello ciò che bello, ma è bello ciò che piace… a te”. Ricercate il dialogo, non il consenso, mettete in dubbio le parole di chi vi esclude, non i vostri valori, siate voi stessi sempre e comunque; in questo modo state pur certi che, prima o poi, vi ritroverete circondati da persone che rimarranno legate a voi per la vita.