DICIOTTO ANNI DALLA TRAGEDIA DI ARMIDA MISERERE, IL SAPPE: DONNA FORTE, LA CHIAMAVANO IL COLONNELLO

Sono trascorsi 18 anni dalla morte di Armida Miserere una delle prime donne alla guida di alcuni istituti di pena italiani. A ricordare oggi il direttore del penitenziario sulmonese, suicida la sera del Venerdi santo del 2003, è il sindacato degli agenti penitenziari Sappe, nella propria rivista. “Il Colonnello la chiamavano, al suo passaggio e con la sua capacità organizzativa faceva funzionare a perfezione l’impossibile. Proprio oggi un sindacato di agenti di Polizia Penitenziaria denuncia ritardi nei  lavori per la realizzazione del nuovo padiglione che ospiterà altri 200 detenuti rispetto ai 410 già presenti nel carcere di alta sicurezza di via Lamaccio. Organico sottodimensionato vero, l’organizzazione per i diritti degli agenti impiegati nelle carceri interviene nei giorni di un importante anniversario – sottolinea la rivista sindacale – Altri non dimenticano e conservano nel cuore, non solo negli uffici del super carcere peligno, alcune parole e alcuni oggetti di questo importante direttore”. Prima di morire, il 19 aprile, il direttore del carcere di Sulmona scrisse una lettera “dai toni forti e impressionanti, la missiva svela il lato intimo e commovente di una donna che mascherava la sua dolcezza dietro un volto da dura integerrima. Lucida, coraggiosa, sofferente si sentiva tradita negli ultimi giorni e le festività pasquali, lontano da casa e dagli amici cari, forse acuirono il senso di solitudine. Pesa come  un macigno la lettera che Miserere avrebbe scritto il giorno in cui si è tolta la vita sparandosi un colpo di pistola alla tempia”. Il  testo della lettera è tratto da un articolo della giornalista Cristina Zagaria, pubblicato il 18 aprile 2013, autrice del libro Miserere, vita e morte di Armida Miserere servitrice dello Stato, con documenti inediti forniti dalla famiglia. Il testo è citato anche nel film dedicato ad Armida Miserere “Come il vento”, regia di Marco Simon Puccioni. “È venerdì Santo. Come Cristo anch’io affronto l’ultima mia via crucis. Sono stanca, troppo e la vita professionale, la stima, non sono sufficienti a riempire il troppo dolore che sempre mi accompagna né questo nuovo dolore pieno di rabbia, di nausea e di disprezzo. Non c’è più posto in me per l’amore, per la comprensione, per la saggezza, per la generosità. Mi resta un ultimo atto di coraggio che peserà come un macigno per chi mi ha tradita, offesa, venduta e rinnegata. Un atto di coraggio contro chi non è stato capace che di sole menzogne, ipocrisie e viltà. A lui, a loro la vergogna del mio sangue e di un dolore che li perseguiterà per sempre. Auguro morte e infamia, dolore e sofferenza a chi mi ha dato morte e dolore e sofferenza. Auguro la stessa angoscia che mi ha uccisa, auguro tutto il male del mondo… e quello che mi è stato dato è la certezza… che nessuno potrà mai dare. Auguro vite distrutte così come con tanta leggerezza è stato distrutto quel che resta della mia. Non mi perdono di aver creduto in un sogno. Non posso perdonare chi quel sogno ha distrutto”. Armida era figlia di un ufficiale della Marina Militare, nata a Taranto e cresciuta tra i monti del Molise.

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