IL DIARIO DI SOLIMO: 10 APRILE 1992, TATONE IL FILOSOFO
Fabio Maiorano – Noi, ragazzini coi calzoncini corti, a giocare a pallone nel campetto dell’oratorio di S.Chiara, terra e polvere tutta l’estate, pozzanghere e fango d’inverno. Lui, d’inverno col vestito di panno scuro e cappello “borsalino”, d’estate camicia bianca con le maniche arrotolate fino al gomito: pelle scura e rugosa, sguardo stanco, una vita passata in campagna, la schiena spaccata dalla fatica. Spesso, di pomeriggio, lo vedevamo uscire dal cancello dell’ospizio, passo lento, scandito come un metronomo dai colpi del bastone sul pietrisco del vialetto; si sedeva sulla panca di legno, riciclo di una traversa di binario mandata in pensione, e passava il tempo a guardarci giocare, correre, sudare, urlare, finché c’era luce. Altre volte, invece, imboccava la strada verso la Circonvallazione e spariva oltre il muro di cinta. Sapevamo che si chiamava Concezio, che era vedovo e che i quattro figli, due maschi e due femmine, erano emigrati in America. In terza media, mi spostai con la famiglia in viale Mazzini, in un nuovo appartamento a pochi metri dall’ospedale. Altri amici, altre abitudini, altri interessi. A distanza di anni, un pomeriggio di primavera, rividi Concezio seduto ai tavoli del bar a lato dell’ingresso della chiesa di S. Chiara. Lo salutai, mi riconobbe, s’illuminò negli occhi e mi fece cenno con la mano di avvicinarmi, di prendere posto accanto a lui. Sulle spalle gli anni pesavano, ma la mente era ancora lucida, i ricordi nitidi. Parlò a lungo, raccontandomi fatti divertenti della sua vita, aneddoti arguti, storielle intrise di filosofia popolare. Una, in particolare, ce l’ho ancora stampata nella mente. A distanza di anni, vagando nel cimitero mi sono fermato casualmente davanti ad una fila di loculi: di colpo, fermo lo sguardo su una foto, su un volto che sembrava mi stesse sorridendo: era Concezio, morto il 10 aprile 1992. Rimasi lì per qualche minuto, come imbambolato, e nella testa mi risuonò, chiara, una frase che gli piaceva ripetere sempre, la frase con la quale si congedava da noi ragazzini: «Uajiò,recurdeteve: per ji bbuone, ce vò la fatiche che te corre appriesse e la salute pe’ ne fars’ acchiappà». Traduzione a senso: nella vita, è importante che ciascuno abbia lavoro in abbondanza (quasi che “ti corra dietro”), ma soprattutto che ciascuno possa essere in buona salute per evitare di soccombere al peso della fatica.