SIGNORI GIÙ IL CAPPELLO AL CILENO DI CIENZO

di Luigi Liberatore – Si presentò poggiando, ma senza fa rumore, la mano sulla mia scrivania sopra un sofferente foglio di carta. Ero allora fresco di nomina all’ufficio comunale di segreteria. Capii subito che non fosse una mano generica quella, soprattutto per le dimensioni, ed ebbi qualche timore non foss’altro per inesperienza. Veniva a contestare una contravvenzione e gli chiesi le generalità, cercando di assumere l’aspetto del “questurino” di paese.  Si alzò in quei suoi due metri di altezza sostenendo il quintale e oltre di peso, dicendomi: mi chiamo Domenico Di Cienzo e sono nato a Santiago… Ebbi un po’ paura e,  per esorcizzarla, scherzai: sei galiziano o boliviano? Mi ricordavo di Santiago di Compostela e di Santiago De Machaca. Lui mi disse no: sono nato a Santiago del Cile. E si aprì in un sorriso cosmico con la lucentezza dei suoi denti, facendomi finalmente rinvenire. Non ricordo se fossi stato io a capire la illegittimità di quel provvedimento sanzionatorio, oppure fosse stato lui a indurmi ad annullarlo. Nacque così l’amicizia con quel gigante tutto cuore e solidarietà tra le cui mani perfino il ferro assumeva pieghe strane e belle. Manipolava il metallo come fosse argilla e divideva questa attività (poco remunerativa) con quella che lo aiutava a vivere: la gestione di locali pubblici e parchi di divertimento. Ma è il ferro battuto che porta la sua impronta artistica. Opere che vagano in tutta Italia. Ho salutato Domenico nel pieno della sua lotta contro la malattia mentre osservavo un crocifisso appeso nel mio studio. Le sue parole non avevano il timbro del nostro primo incontro, ma le braccia di quel Cristo fatto per me sembravano lievitare verso l’alto. Addio, caro Domenico.