LA DUALITA’ DEL POSSESSO

Alessandro Lavalle – La malvagità, o meglio i sentimenti negativi in generale, sono radicati in noi dagli esordi della nostra specie; sentimenti come: invidia, arroganza, ira, disgusto, pregiudizio e supponenza sono tutti ugualmente insidiati nel nostro spirito. Bisogna dire, però, che mano a mano che le interazioni uomo a uomo sono divenute più complesse – ovvero che incominciavano a richiedere più fattori per poter avvenire – la condizione sociale dell’individuo incominciava ad avere un ruolo centrale nell’aumento o diminuzione di intensità di questi torvi pensieri; ma quanto, veramente, la condizione sociale influisce sul provare queste sensazioni?

In linea di massima si associa un comportamento arrogante ed irrispettoso con la ricchezza: è consuetudine che maggiori siano le cose che abbiamo in nostro possesso, maggiore diventi la nostra avidità e maggiore diventi la spocchia con cui ce ne vantiamo; viceversa l’uomo povero è all’unanimità identificato col il concetto di umiltà: non avendo nulla trova la felicità nella piccole cose, annullando così quella famelica avarizia che caratterizza la nostra specie.

La verità però, come sempre, si trova nel mezzo: il mondo non è né tutto bianco né tutto nero, la straordinarietà della vita si nasconde nelle centinaia, che dico, migliaia, forse milioni di migliaia di sfumature; di conseguenza come potrebbe esistere una persona benestante dall’animo gentile, potrebbe anche esistere una persona economicamente in difficoltà dall’animo spigoloso.

Il possesso di una straordinaria varietà di oggetti non necessariamente è sinonimo di avarizia: la causa che porta a questo sentimento, a dire il vero, va ricercata nel come si è entrati in possesso di questa pletora di ninnoli; questo aspetto, assieme alla presenza di una figura di riferimento sul come usufruire di queste proprietà, costruisce una parte della personalità dell’individuo. Come quando ci si trova di fronte ad un cane dal comportamento aggressivo: non ce la si deve prendere con l’animale per com’è, bensì con chi si è occupato della sua crescita. A dirla tutta la ricchezza può anche condurre ad un particolare tipo di umiltà: la consapevolezza dei propri averi, della propria fortuna, protegge dall’avarizia e rende generosi nei confronti dei meno fortunati; alla stregua dell’insegnamento biblico “non fare agli altri quello che non vuoi venga fatto a te” la persona generosa e scaltra aiuta se stesso aiutando il prossimo. Per quanto riguarda la controparte meno borghese, invece, questi stessi sentimenti negativi provengono da un forte senso di invidia e rivalsa sociale; non si trova spesso qualcuno che possiede poco donare molto al prossimo; questo qualcuno tende a fare, anche involontariamente, il contrario, ragionando secondo il principio per cui “più gente è messa peggio di me, meglio potrò sentirmi”; purtroppo ciò deteriora l’individuo arrestando lo sviluppo della persona, in favore di un carattere da cinico vessatore dei più deboli.

Il potere economico è una belva da cui oramai dipendiamo tanto quanto l’aria che respiriamo, se non di più; ha trovato un posto così comodamente in alto nei nostri desideri nutrendosi del nostro disperato bisogno di averlo sempre più smodatamente: l’avidità dell’uomo, infatti, non conosce limiti e perfino i più gentili, di tanto in tanto, crollano sotto la sua forza, cercando di giustificare atti di dubbia moralità come necessari (la maggior parte delle volte veramente) a garantire la loro stabilità economica.

Il nemico di questo secolo, ovvero quella la sottaciuta discriminazione, che è sempre vissuta tra noi dall’invenzione del denaro non è nient’altro che la discriminazione economica; discriminazione che, nonostante ci troviamo nella cosiddetta “era civilizzata”, è ancora basata sulla primitiva “legge del più forte”, che ci giustifica nel giudicare qualcuno dal suo stato sociale senza valutare le altre sfaccettature o seconde possibilità. Il denaro è oramai fin troppo radicato nelle nostre vite; divenuto da qualche decennio a questa parte solo un prestanome di carta dal valore ideologico; rimuoverlo dall’equazione sociale a questo stadio di simbiosi risulterebbe uno shock globalmente fatale. Ahimè cercare di isolare questa bestia dagli occhi dorati vuol dire cercare di cambiare la vera essenza umana, un compito praticamente infattibile ma teoricamente futuribile: bisogna aspettare e confidare nell’uomo che noi diventeremo domani, incominciando a costruirlo oggi.  

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