IL DIARIO DI SOLIMO: 2, 3 E 4 FEBBRAIO 1957, JAMM MO’ SULMONA SI RIBELLA

Fabio Maiorano – Troppe volte i sulmonesi avevano sopportato i torti messi in atto dai ras politici, privando la città del diritto di diventare capoluogo di provincia o sede dell’Università degli Abruzzi, decisione già assunta a livello ministeriale; troppe volte i sulmonesi avevano dovuto subire ingiuste spoliazioni (dalla Sottoprefettura alla Corte d’Assise, dall’Ufficio Manutenzione e Lavori delle Ferrovie all’Ufficio Distaccato del Genio Civile, da alcune preture dipendenti dal tribunale allo stabilimento Montecatini, dal Collegio Elettorale senatoriale alla Cattedra Ambulante di Agricoltura, dal 13° battaglione Fanteria ad altre importanti strutture militari), che tra le due guerre avevano impoverito e mortificato tutto il territorio interno dell’Abruzzo. Quando però, nella notte tra il 1° e il 2 febbraio 1957, un commando di poliziotti e carabinieri “sottrasse” con un blitz i documenti del distretto militare per trasferirli all’Aquila, la rabbia della gente esplose con violenza. Infatti, era l’ennesimo affronto consumato ai danni di una città che, scelta dai vertici dell’esercito per ospitare il Distretto Militare unico nella regione, in virtù della sua centralità geografica e della presenza di un importante scalo ferroviario, era stata vigliaccamente “pugnalata” alla schiena dal ministro Taviani che pure, nei giorni precedenti, aveva rassicurato il Comitato di Difesa Cittadino che la struttura non sarebbe stata rimossa. Al grido di jamm’ mò che alla lettera si traduce ‘andiamo adesso’ ma che nella lingua parlata ha un duplice significato: d’incitazione allorché si compie uno sforzo, ed è l’equivalente dialettale di “oh issa”, ma anche d’invito pressante a “darsi da fare”, “a sfruttare il momento o la circostanza favorevole” i sulmonesi di ogni ceto sociale e di ogni età scesero in piazza per manifestare il loro disappunto con toni decisi, mentre sindaco, consiglieri comunali e membri di altri organismi istituzionali rassegnarono le dimissioni in segno di protesta. A scaldare gli animi e ad accendere la scintilla della rivolta, però, fu l’inatteso arrivo a sulmona del prefetto Ugo Morosi, un gesto che la popolazione interpretò come un atto di sfida, come un’autentica provocazione. Il prefetto, rifugiatosi in Municipio per sfuggire alla folla inferocita, potette lasciare la città, dopo molte ore, a bordo di un blindato e nel frattempo i rivoltosi alzarono barricate in punti strategici della città e agli ingressi dell’abitato. Scattato l’allarme a livello istituzione, furono inviati a Sulmona ingenti forze di polizia e carabinieri, mentre da Roma e da Senigallia giunsero due reparti della Celere con il compito di sedare gli animi. Mossa sbagliata perché da quel momento la protesta si trasformò in guerriglia urbana che si protrasse per quasi due giorni: da una parte i sulmonesi armati
di bastoni e sassi, dall’altra i “celerini” sugli autoblindo e armati di tutto punto. I feriti furono 36 tra le forze di polizia, con più 150 contusi; tra i sulmonesi si contarono 22 feriti, ma altri non si fecero medicare in ospedale per non essere denunciati. Infatti la polizia arrestò una cinquantina di rivoltosi, rinchiusi dapprima a S. Pasquale e poi a Chieti, nel

timore di un assalto al carcere sulmonese. La situazione tornò alla calma, tuttavia, quando gli arrestati tornarono in libertà. La rivolta si era spenta, ma la sua eco occupò ancora per giorni le cronache giornalistiche, fino a riverberarsi in Parlamento dove il successivo 28 marzo fu approvata una risoluzione che, nella sostanza, impegnava il governo centrale ad una serie di interventi in favore di Sulmona e del suo comprensorio: in gran parte parole a cui non fecero seguito fatti concreti.