ODE ALLA LINGUA (ITALIANA), MADRE DEL PENSIERO

Alessandro Lavalle – La lingua, scritta o parlata, si è subito rivelata come una fortissima necessità umana; i disegni preistorici riuscivano solo in parte a veicolare sentimenti, sensazioni ed idee al prossimo, era quindi necessario un salto di qualità: nasce la scrittura, nasce il concetto di lingua.

La lingua è, inoltre, sempre stata un simbolo di identità nazionale; la lingua definisce la geografia politica, principio che più in là porterà alla formazione di dialetti unici (sempre per perpetrare quel senso di identità); rimane tuttavia, a causa di questa sua identità nazionale, un grande ostacolo al fenomeno di globalizzazione.

 

Oltre alle capacità comunicative, può una lingua influenzare il nostro modo di pensare?

 

L’atto del parlare in sé non influenza i nostri pensieri, è soltanto uno dei tanti mezzi che abbiamo per rivelarci al prossimo e diffondere il nostro cogitare; è importante sottolineare però come usare una diversa lingua cambi non solo il modo in  cui i pensieri vengono veicolati, ma anche l’orientamento generale della nostra mente. Capita spesso che ci si senta più a nostro agio a comunicare usando una lingua piuttosto che un’altra, capita che avviene (in un certo senso) un cambiamento nella personalità non appena si inizi a parlare in quella determinata lingua. Questa inconscia preferenza linguistica avviene per una serie di valori quali la complessità della lingua, l’uso globale, la versatilità personale e la similitudine alla propria lingua natale.

La complessità è ciò che rende le lingue neolatine, come l’italiano e il francese, difficili da imparare perché ricche di sfumature e articolate nella sintassi e nella grammatica.

L’uso globale, invece, è ciò che definisce maggiormente una preferenza linguistica poiché scegliere una lingua universalmente parlata rende estremamente più semplici i contatti con il resto del globo.

La versatilità personale è una componente, generalmente, di minore impatto poiché rappresenta solo l’abilità di ognuno di imparare specifiche lingue.

La similitudine alla lingua natale, infine, è ciò che rende alcune lingue più semplici da comprendere di altre; per esempio una lingua come lo spagnolo è assai più semplice da imparare se si parla già una lingua come l’italiano per via proprio della comune radice latina.

 

Aver descritto queste quattro componenti spiegherebbe, a grandi linee, perché l’inglese è la lingua più parlata al mondo: è una lingua semplice ricca di onomatopee e parole assonanti, viene usata come lingua-tramite da una maggioranza sostanziale di Paesi ed è relativamente intuitiva. Parlo per esperienza personale quando affermo che mi trovo più a mio agio, mio malgrado, nel parlare inglese che nel parlare italiano: trovo più semplice esprimere me stesso (tramite il parlato s’intende) attraverso la lingua inglese piuttosto che nella mia lingua natale.

L’italiano, invece, è una lingua complessa e con delle radici antichissime, radici, appunto, latine. Il Prof. Ivano Dionigi, nel suo intervento “Ode al latino padre della politica” (2015),  descrive quanto di più vero ci sia: le lingue morte sono i giganti su cui si posa la società come la conosciamo oggi. Lingue che hanno acquistato complessità col tempo e che quindi avevano parole che esprimevano diversi concetti alla volta, a seconda del contesto in cui erano usate.

Nel corso della trasformazione del latino in italiano, sono avvenute, come ha ben descritto Dionigi, delle deformazioni linguistiche che (per svariati motivi) hanno reso necessaria la creazione di parole nuove, parole che andavano a colmare quel “gap” di significato con le originali latine o, deformandosi, ne hanno cambiato completamente il senso (parole come appunto “competizione” che hanno acquistato una valenza negativa).

Questa trasformazione del latino ha portato ad un’incrementale semplificazione della lingua parlata comunemente, creando dei volgari intercalari ed “esterismi” (di discreta popolarità) ovvero deturpazioni (a mio parere in buona fede) che hanno cambiato la forma mentis dell’italiano medio – già naturalmente rilassata – in una dalle maniche larghe e dai giudizi erratici, riducendone il vocabolario ed “incastrandolo” nell’usare sempre le stesse poche centinaia di parole, portando infine il mondo a giudicare gli italiani come un popolo di “faciloni” e “inconcludenti”.

 

L’italiano però, essendo una lingua figlia del latino, conserva un potenziale latente. Come può l’italiano tornare di nuovo a splendere?

 

In piena visione Ciceroniana, l’italiano è la lingua del “delectare” per antonomasia; dal latino, ovviamente, “l’arte del dilettare” era per Cicerone una componente cardine dell’oratoria, ambito che (nonostante i cambiamenti che ha subito nel corso degli anni) rimane ancora il palcoscenico della nostra lingua mediterranea. L’italiano “da vocabolario” è così squisitamente complicato e ricco di differenti sfumature, che parrebbe quasi fosse stato creato solo per infiorettare la parola, per renderla presentabile, dignitosa, regale; per descrivere al meglio un concetto, per descriverlo completamente. La versatilità e plasticità dell’italiano non conoscono pari, non solo la lingua di per sé ha un ampissimo vocabolario, ma questo viene arricchito grazie ad un aiuto, se si può definire involontario, dei suoi variegatissimi dialetti regionali; dialetti che narrano ad uno ad uno – a loro modo – un pezzo di storia dell’Italia, rivelando l’animo di ciascun uomo, donna o bambino di ogni epoca. L’italiano usato a questa maniera potrebbe veramente cambiare il nostro modo di pensare e scrollarci da questo momentaneo torpore in cui siamo incappati.

 

Insomma, è pur vero che la lingua potrebbe essere definita come nient’altro che un mezzo per raggiungere un fine, uno strumento sociale che ci permette di avere interazioni umano-umano e nulla di più, un qualcosa che è completamente distaccato dal pensiero e non lo influenza in alcun modo. Ma è vero anche il contrario; bisogna sempre ricordare, quindi, che la lingua è nazione, la lingua è l’Italia, ogni parola è una persona, ogni sillaba è un pensiero. Ciò che dice il Prof. Dionigi, “Noi apparteniamo al latino e il latino non ci appartiene”, è vero come “noi apparteniamo all’italiano e l’italiano appartiene all’Italia”.

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