VERSI IN DIALETTO OMAGGIO AL MEDICO GINO FASOLI

Questa poesia in dialetto sulmonese è il mio tributo di affetto per un “amico molto caro” che ha speso la sua intera esistenza comportandosi da cristiano autentico, il medico Gino Fasoli, sulmonese di origine e validissimo professionista in Lombardia. L’ho conosciuto, insieme alle mie compagne di studi delle Terza C, che pure lo ricordano con immutato affetto, durante gli esami del terzo Liceo Classico dove lui si presentò da privatista. Bontà e umiltà fatte persona, mitezza e dolcezza nelle parole e nei modi, immediatamente divenimmo amici. Era orfano di entrambi i genitori ma ebbe affetto e sostegno da due care persone che abitavano vicino casa mia che lo aiutarono ad iniziare e completare il corso di studi in Medicina e Chirurgia. All’epoca ci incontravamo periodicamente, poi lui ha fatto tante esperienze, anche all’estero con Medici senza frontiere, sempre pronto a donarsi agli altri. Diversi anni fa, durante un viaggio in Franciacorta, mi ricordai che lui allora viveva a Cazzago San Martino. Nel chiedere informazioni per trovare la sua casa e fargli una sorpresa mi resi conto di quanto fosse rispettato, amato e stimato dai suoi concittadini. Io e le mie compagne della Terza C lo ricorderemo sempre, vorremmo additarne l’esempio anche a chi non lo ha conosciuto, soprattutto alle nuove generazioni, spesso carenti di ideali e di fede. Avendo con Sulmona un legame molto forte, tanto che le sue care spoglie riposano qui, dove vive suo fratello, vorremmo che la sua memoria si mantenesse viva. Nicolina D’Orazio. 

Gine, nu miédeche                                                               Gino, un medico

Le iurnate parèvene ‘nfenìte,                                                Le giornate sembravano infinite,

mò che pe’ mi tenéve tante tiémpe                                        ora che avevo avanti tanto tempo

pe’ rassettà gli piézze de na vite                                           per ricomporre i pezzi di una vita

de giòje e zuffremènte chiéna chiéne.                                  di gioie e sofferenze piena piena.

Nu miédeche che te’ nu córe fine,                                        Ma un medico che abbia un cuore buono,

stu miédeche nen ze repósa mai,                                           questo medico non riposa mai,

e quande me sentètte de chiamà                                            e quando mi sentii di chiamare

me scètte da gliu córe quiglie “scine”.                                  uscì proprio dal cuore quel mio “sì”.

Iuórne e nòtte me dètte alle da fa’                                         Giorno e notte mi detti da fare

p’aiutà gli cumpègne e gli nfermiére,                                    aiutando colleghi ed infermieri,

seccórre chi ’nen putéve refiatà,                                           soccorrere chi non poteva respirare,

prehà Requiemmetèrne a chi muréve.                                   pregar Requiem aeternam a chi moriva.

Vedéve mamme e tate a ógne facce,                                     Vedevo papà e mamma in ogni faccia,

ógne malate gli sentéva frate,                                               ogni malato era mio fratello,

e m’hai ‘mparate de parlà che gli uócchie:                           ed ho imparato a parlare con gli occhi:

n’autra léngue che Criste m’ha dettate.                                altra lingua, che Cristo mi ha dettato.

Perché Criste sèmpre m’ha agliumàte,                                  Perché Cristo mi ha sempre illuminato,

chinunche m’ha cercate, j’aje respuóste.                            chiunque mi ha cercato, io gli ho risposto.

GliuVangéle, ji’, gli aje pratecate                                         Il Vangelo io l’ho praticato

curènne gli emmeléte a ógne puóste                                     curando gli ammalati in ogni posto

(me s’errubbiérene na vóte a na trebbù,                                (mi rapì una volta una tribù,

e pure allóre nen me ne mpurtètte,                                        e pure allora non me ne importai,

pigliétte a curà tutte le mmalatì’                                            presi a curare ogni malattia

de gli efrechéne, de pòvera gènte).                                       degli africani, di povera gente).

E quande la cartèlle è scite a mì,                                           E quando la cartella è uscita a me,

la mmalati’ nen m’ha rammarecate.                                     la malattia non mi ha rammaricato.

M’hai muórte pure ji’ che’ tanta gènte.                                Sono morto pure io con tanta gente.

Pure le préte, dice, m’ave piante.                                          Anche le pietre, dicono, mi han pianto.

Mó stiénghe ‘nda vuléve, stritte a Ddi’,                                Dove volevo sto, ora, stretto a Dio,

e la Gliuce m’ammante gne nu sante.                                   e la Luce mi ammanta come un santo.

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