SILONE SUL SENTIERO DI CELESTINO

di Mario Setta

C’è un sentiero che si inerpica sul Morrone, contrafforte della Majella, e raggiunge l’0ratorio di S. Onofrio. Un sentiero che nell’estate del 1294 fu percorso dai messi del Collegio cardinalizio che recavano a fra Pietro da Morrone la notizia e il decreto di nomina a pontefice della Chiesa di Roma. Fra Pietro Angelerio era giunto, la prima volta, all’eremo di S. Onofrio intorno al 1240 e subito il Morrone divenne il luogo privilegiato della sua vita eremitica e comunitaria. Ancora oggi, la gente continua a denominare quel luogo “Eremo di S. Onofrio” piuttosto che “Eremo di Celestino V”. Di S. Onofrio si sa ben poco. Era, probabilmente, un eremita, vissuto nel deserto egiziano della Tebaide, centro dell’anacoretismo, intorno al IV-V sec. d.C. Esiste una raffigurazione di S. Onofrio, nella Yilanli Kilise di Goreme, in Cappadocia, che lo presenta con lineamenti femminili, sulla base di una leggenda che ne parlava come di donna convertita e consacratasi alla vita eremitica. Santuari dedicati agli eremiti della Tebaide sorsero un po’ dappertutto nell’Occidente cristiano. Tra i santi più venerati: Sant’Antonio abate, la cui devozione è ancora in voga nelle parrocchie di campagna.
Su questo sentiero si mette in cammino Ignazio Silone, prima di scrivere “L’avventura d’un povero cristiano”, ricalcando le orme di fra Pietro da Morrone. Le poche pagine, dal titolo “Quel che rimane” che fanno da introduzione al dramma, rappresentano la professione di fede dello scrittore. Un credo, pronunciato con il cuore radicato nella terra abruzzese e il pensiero libero dalle catene delle ideologie e delle istituzioni.
“Benché nato e cresciuto in una valle attigua, – scrive Silone – da cui la Maiella è invisibile, nessuna montagna mi tocca come questa. Elementi emotivi assai complessi si aggiungono all’ammirazione naturalistica. La Maiella è il Libano di noi abruzzesi”.
Nessun’altra montagna è assurta a simbolo di Libertà come la Majella. Può sembrare paradossale un simile accostamento, date le asperità e gli ostacoli che il massiccio della Majella presenta. Ma è proprio per le difficoltà da superare nel raggiungere la vetta che la Majella diventa metafora della Libertà. Il concetto di “sentiero interrotto”, come cammino verso la verità, espresso da Heidegger col termine tedesco “holzweg”, trova la sua raffigurazione plastica nel sentiero che conduce verso monte Amaro: un sentiero inizialmente ben visibile e regolarmente segnato, ma poi scompare in prossimità della vetta. Le montagne abruzzesi erano considerate luoghi di nascondiglio e di difesa dalle persecuzioni dei tiranni. Gioacchino Volpe, famoso storico nativo di Paganica, nel volume “Movimenti religiosi e sette ereticali”, una delle opere storiografiche consultate da Ignazio Silone per stendere il dramma celestiniano, riferisce di una bolla di Bonifacio VIII “contro quei bizochi o altrimenti chiamati che, ricoveratisi nei monti dell’Abruzzo, in abiti ovini, ma veri vampiri, spargevano eresia tra i semplici uomini”.

Silone e Uys Krige
Silone aveva conosciuto lo scrittore sudafricano Uys Krige, a Roma, alla fine della seconda guerra mondiale e aveva ritrovato a Sulmona, in occasione della visita all’eremo di Celestino V. Scrive Silone: « Prima di lasciare Roma e tornarsene nel Sud Africa, nel 1945, Uys Krige mi prese a testimone di due suoi voti: avrebbe scritto un libro su questa contrada che egli chiamava “terra amica e prediletta”, e appena possibile sarebbe tornato portando con sé sua figlia, nella convinzione che avrebbe giovato all’educazione della ragazza conoscere quei posti e quella gente ».
Il libro di Krige, “The way out”, tradotto in italiano “Libertà sulla Maiella”, è dedicato ad un contadino di Bagnaturo di Pratola Peligna, Vincenzo Petrella “to whom I owe my Freedom” (“cui devo la mia Libertà”). Tra lo scrittore sudafricano e il contadino italiano, dopo la guerra, si instaura un rapporto di grande fiducia a amicizia. Vincenzo Petrella, infatti, partirà, emigrante, in Sud Africa, dove sarà accolto e aiutato da Krige per l’impiego e per l’inserimento nel nuovo tessuto sociale. Dopo alcuni anni, Vincenzo torna in Italia, dove aveva lasciato la famiglia, continuando il rapporto epistolare con Krige. In una lettera del 3 marzo 1983, Krige scrive: « Mio caro Vincenzo, mi dispiace che questa lettera non sia in italiano. Io parlo ancora italiano, naturalmente, ma è diventato molto stentato e dico sempre che avrei bisogno di almeno tre settimane nel Paese di cui conoscevo bene la lingua, prima di tornare ad avere la stessa scioltezza che avevo di essa. Questa mia lettera è per farti sapere che sarò in Italia in giugno, per qualche tempo: la South African Broadcasting Company sta facendo un film su di me e sulla mia vita in Europa e vogliono riservare una speciale attenzione al mio soggiorno nella valle di Sulmona. Così verremo a Sulmona e a Bagnaturo. Saremo solo in cinque e staremo in un albergo vicino a te. Mia figlia Eulalia verrà con me. Così potremo fare una bellissima riunione. Mi chiedo spesso come state: come sta Carmela? Ed i suoi otto figli? Termino inviandovi i miei più cari saluti a tutti. Ti scriverò di nuovo prima di lasciare il Sud Africa. Scrivimi anche poche righe. I migliori auguri a tutti per l’anno iniziato. Il tuo vecchio amico, Uys Krige. P.S. Anche tu prenderai parte al film, naturalmente ».
La storia di Krige, come quella di migliaia di ex-prigionieri, rappresenta l’epopea della solidarietà abruzzese. “Nel suo libro – scrive Silone – il Krige narra, in forma semplice e commossa, innumerevoli episodi della spontanea e temeraria solidarietà di quella povera gente verso lui e i suoi compagni di evasione.[…] Fu in un nostro primo incontro a Roma, verso la fine del ’44 che il Krige mi parlò con le lagrime agli occhi dei pastori di Roccacasale, di Campo di Giove, di Castel Verrino, di Pietrabbondante, di Cupello. Egli non esitava ad affermare che il tempo passato fra essi era il più bello della sua vita, avendo allora intravisto, per la prima volta, la possibilità di relazioni umane assolutamente pure e disinteressate” .
La storia dell’aiuto ai prigionieri di guerra, evasi dai campi di concentramento in Abruzzo e nascosti nelle case o nelle montagne, è una delle pagine più drammatiche e sconvolgenti della seconda guerra mondiale. Purtroppo, una pagina incredibilmente sconosciuta, anche se molti ex-prigionieri hanno lasciato memorie straordinarie e ricche di umanità.
Eric Hobsbawm, l’autore de “Il secolo breve”, ha scritto: “Io ho sentito tanti racconti dell’Italia prima ancora di conoscerla, dai miei amici che vi erano stati durante la guerra, perché vi combatterono o perché l’avevano attraversata fuggendo dai campi di prigionia: gente la cui vita era stata spesso salvata dall’aiuto del tutto disinteressato di famiglie di contadini, che non avevano nessuna particolare ragione per soccorrerli se non quella della solidarietà umana. Questo impressionò molti di noi, della nostra generazione”.

Il concetto di “resto”
Ne “L’avventura di un povero cristiano”, Silone focalizza il conflitto tra istituzione e profezia, tra lettera e spirito, tra schiavitù e libertà. Presenta, da artista e non da sociologo, la drammatizzazione della tipologia: chiesa-istituzione/chiesa-profezia. E lancia un messaggio di carattere teologico, con le parole “Quel che rimane”. Infatti il concetto di “resto” è caratteristico dei libri profetici della Bibbia. Soprattutto in Isaia. “Il resto è costituito dai poveri, – annota Miegge, – un’entità piuttosto teologica che socio-economica”.
Ma la trattazione più approfondita e “rivoluzionaria” dell’idea di “resto” si trova nella Lettera ai Romani di San Paolo. “La lettera di paglia”, come la definisce Lutero. Paolo appare come un nuovo Mosé, che annuncia una nuova alleanza non più solo tra Dio e il popolo ebraico, ma tra Dio e l’umanità intera: “Non tutti i discendenti di Israele sono Israele, né per il fatto di essere discendenza di Abramo sono tutti suoi figli” (Rom. 9,6-7). I cristiani sono il vero “Resto d’Israele”. Una volta universalizzata l’idea di “popolo eletto”, nel senso che l’umanità intera è chiamata ad essere tale, ogni uomo può e deve raccogliere l’invito che Paolo non si stanca mai di raccomandare: “Pieno compimento della legge è l’amore” (Rom. 13,10).
Silone, umilmente e quasi sotto voce, cerca di rintracciare la via maestra per costruire un mondo di pace e di fratellanza, concludendo la sua professione di fede con queste parole: «A ben riflettere e proprio per tutto dire, rimane il “Pater noster” ».