I GRANDI ROMANZI SULLA RESISTENZA NELLA NARRATIVA ITALIANA

Le polemiche sul 25 aprile, sull’opportunità di celebrarlo e su ciò che rappresenta, che annualmente si ripetono, hanno già invaso i social dopo le dichiarazioni del vicepresidente del Senato Ignazio La Russa, che proponeva di dedicare il 25 aprile al ricordo dei caduti di tutte le guerre compresi i morti per il coronavirus. A queste polemiche hanno già risposto, anni fa, molti autori, scrittori ed intellettuali attraverso uno dei filoni più importanti della narrativa italiana del ‘900: i romanzi della resistenza. Italo Calvino, più di chiunque altro, con la prefazione de “Il sentiero dei nidi di ragno” pubblicata nel 1964 riesce a rispondere alle critiche di allora e di oggi, lanciando una sfida sia ai detrattori della Resistenza sia “ai sacerdoti d’una Resistenza agiografica ed edulcorata”. “A poco più d’un anno dalla Liberazione già la ‘rispettabilità ben pensante’ era in piena riscossa, e approfittava d’ogni aspetto contingente di quell’epoca – gli sbandamenti della gioventù postbellica, la recrudescenza della delinquenza, la difficoltà di stabilire una nuova legalità – per esclamare: << Ecco, noi l’avevamo sempre detto, questi partigiani, tutti così, non ci vengano a parlare di Resistenza, sappiamo bene che razza d’ideali…>> Fu in questo clima che io scrissi il mio libro, con cui intendevo paradossalmente rispondere ai ‘ben pensanti’: << D’accordo, farò come se aveste ragione voi, non rappresenterò i migliori partigiani, ma i peggiori possibili, metterò al centro del mio romanzo un reparto tutto composto da tipi un po’ storti. Ebbene: cosa cambia? Anche in chi si è gettato nella lotta senza un chiaro perché, ha agito un’elementare spinta di riscatto umano, una spinta che li ha resi centomila volte migliori di voi, che li ha fatti diventare forze storiche attive quali voi non potrete mai sognarvi di essere! >>. Gli autori dei romanzi di resistenza, tra i quali lo stesso Calvino, Beppe Fenoglio, Elio Vittorini e Renata Viganò, per la maggior parte ventenni o trentenni, indipendentemente dal loro ideale politico, hanno raccontato in bellissime e strazianti pagine cariche di vita vera, le autobiografie di un’intera generazione. Hanno scritto quasi fisiologicamente, come diceva Calvino, delle testimonianze, ansiosi di raccontare, riversando nelle pagine eventi terribili e grandiosi ai quali avevano preso parte spinti dal desiderio di libertà “vera” ma anche dalla libertà parola, di pensiero e di stampa. E forse non c’è davvero modo migliore di comprendere, o più semplicemente di provare ad immaginare, cosa è stata la resistenza, cosa ha rappresentato e come abbia influenzato il nostro presente, se non entrando in contatto con chi vi ha partecipato, dai nostri parenti più anziani alle rievocazioni della memoria di chi ha ascoltato le loro storie fino alle pagine più emozionanti della nostra letteratura, come questa, de “Il partigiano Johnny” di Beppe Fenoglio. “Partì verso le somme colline, […] sentendo com’è grande l’uomo quando è nella sua normale dimensione umana. E nel momento in cui partì si sentì investito – nor death itself would have been divestiture – in nome dell’autentico popolo d’Italia, ad opporsi in ogni modo al fascismo, a giudicare ed eseguire, a decidere militarmente e civilmente. Era inebriante tanta somma di potere, ma infinitamente più inebriante la coscienza dell’uso legittimo che ne avrebbe fatto. Ed anche fisicamente non era mai stato così uomo, piegava erculeo il vento e la terra”.

Lorenzo Marsicola