CORONAVIRUS, LA PRIMAVERA SE NE FREGA

Il silenzio e gli sguardi dietro le mascherine sono ciò che impressiona di più in città. La piazza Maggiore vuota, senz’auto. I bar chiusi. Surreale. “Chiude l’Italia” titolava ieri La Repubblica, “L’Italia adesso è blindata” per il Corriere della Sera. Non senza chi storce il naso, paradossalmente, perchè non digerisce proprio la realtà e tende a non gradire allarmismi. Eppure l’Italia è davvero blindata e i tempi sono seriamente bui. Anche a Sulmona. C’è il sole. E c’è anche un invitante cielo azzurro. Un silenzio spettrale la dice lunga sui toni foschi che, appena mattina, si scorgono da quei volti incerti, che vedo passare per “comprovato motivo”. Un triste vuoto che preme in petto arriva rapido e brusco come un idrante sparato addosso, con un carico di timore inquietante. Si respira piano. Quasi sottovoce. Si tiene botta con spirito bellico. Facce tese. Si accenna un saluto. Qualcuno sorride difendendo l’allegria contro una grande paura, in uno scambio vicendevole di un conforto da buontemponi, che anche da lontano lo sentiamo come una calorosa stretta di mano. Non è quella pace tipica domenicale, piacevole come tregua dal baccano quotidiano. Leggo commenti accaniti di chi vede gente ovunque. Nervosismo sui posti di lavoro, per chi continua in trincea. Come solidali naviganti su uno stesso fragile barcone vacillante. Stridono i bei colori degli alberi in fiore, le luci e il tepore di una primavera che se ne frega, (come “la Neve” nel libro di Ligabue). Via Patini, viale Mazzini, via Federico II, via L’Aquila, e ancora la frequentata via Marane: un’esplosione di fiori rosa, come natura crea. E’ l’ottimismo che fa da sfondo a chi convince che “andrà tutto bene”, come disegnano i bimbi della città su quell’arcobaleno appeso ai balconi e portoni, come bandiere della Pace. Le emozioni sono palpabili. Come le preoccupazioni. Sono gli anziani ad essere spaventati, per la solitudine e la lontananza da nipoti e familiari, perché quel vociare fino a tardi e quelle luci accese della vita di paese, da dietro le finestre facevano compagnia. Loro, con quell’invidiabile scorza dura forgiata tra fame e carestia ai tempi della guerra. Quella orribile. Quella degli uomini chiamati al fronte per la patria, mentre oggi si chiede solo di stare a casa. Ci sono poi gli irriducibili (come Reteabruzzo li ha chiamati), quelli che in circolo vicino a Ovidio, distanziati per legge e “crianza”, pare urlassero “Per Camelot!!” (come Artù e i cavalieri della tavola rotonda) pronti a salvare l’Italia, tali e quali ai coetanei la mattina, che di tornarsene a casa proprio non ne vogliono sapere. Nostalgia di un cantiere da guardare, forse. Che la speranza sia il filo conduttore mi ha colpito leggendo un’intervista su LaRepubblica ad Antonio De Caro, sindaco di Bari e dei Comuni italiani, dato che è presidente dell’Anci, dopo il video, che ha fatto il giro del web per giorni, in cui ha tradito le sue emozioni con le lacrime in diretta nel vedere con dolore la sua città in quello stato. Ha detto “Non c’ è bisogno di un uomo forte al comando, la retorica del condottiero solitario non fa parte della mia cultura. Qui c’ è bisogno di una presa di coscienza collettiva: siamo invincibili soltanto se si agisce insieme. Lo diceva Berlinguer: “Ci si salva e si va avanti se si agisce insieme e non solo uno per uno”. Per combattere la paura, non servo io. Io non posso fare nulla da solo. Serviamo noi”.  E poi quella parte finale che fa decollare l’intervista: “Mi sono arrivati molti messaggi. Il più bello me l’ ha mandato un mio amico, Francesco: “Ti sono vicino. Tornerà tutto più bello e forte di prima”. Era il sindaco di Codogno”.
Dal divano è tutto, a voi la linea.
Giuliana Susi